È discriminatorio il comportamento del datore di lavoro che non conteggia, ai fini dell’avanzamento di carriera automatico previsto dal contratto collettivo, i periodi di fruizione del congedo di maternità e di quello parentale.
Lo ha chiarito la Corte d’appello di Venezia con la sentenza 841/2018 , facendo riferimento al Ccnl per il personale di terra del trasporto aereo e delle attività aeroportuali, ma affrontando temi di respiro generale.
La decisione trae origine dal ricorso di una lavoratrice che, assentatasi dal lavoro per fruire del congedo di maternità prima e di quello parentale poi, si era vista negare il riconoscimento del livello superiore a cui, in ragione della propria anzianità di servizio, avrebbe avuto diritto ai sensi del contratto collettivo per il personale di terra del trasporto aereo.
Il tribunale di Venezia, investito della questione, ha accertato la discriminatorietà della condotta datoriale e la decisione è stata confermata dalla Corte d’appello.
Due i punti focali della sentenza. Il datore di lavoro ha sostenuto la legittimità della propria condotta, sottolineando come la contrattazione collettiva applicabile faccia riferimento, ai fini della progressione di carriera, al requisito dell’«effettivo servizio» e non invece a quello dell’anzianità di servizio. Secondo il datore l’effettivo espletamento delle mansioni sarebbe stato necessario per l’accrescimento della professionalità, funzionale alla promozione e ciò risulterebbe coerente con il testo unico sulla maternità e sulla paternità (Dlgs 151/2001), che prevede come i periodi di fruizione dei congedi parentali debbano essere «considerati ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non richiedano a tale scopo particolari requisiti».
L’effettivo servizio costituirebbe “particolare requisito” che giustificherebbe il diverso trattamento. La Corte, confermando la posizione già espressa dal tribunale, non è stata di questo avviso, ricordando come la Corte di giustizia della Ue si sia espressa in modo molto forte sul tema (sentenza 595 del 6 marzo 2014): «le disposizioni di attuazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego … rilevano rispettivamente l’esclusione in via generale ed in termini inequivocabili di qualsiasi discriminazione basata sul sesso e prevedono che alla fine del periodo di congedo per maternità la donna abbia diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli, e a beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza».
Inoltre gli aspetti ove il trattamento meno favorevole non è consentito comprendono anche quello su cui verteva la causa: «l’accesso a tutti i tipi e a tutti i livelli di orientamento professionale, formazione, perfezionamento e riqualificazione professionali, nonché l’esperienza professionale, le condizioni di occupazione e di lavoro». Anche senza affermarlo esplicitamente, la Corte ha chiarito come i «particolari requisiti» richiesti dal Ccnl per giustificare un trattamento differenziato, debbano consistere in qualcosa di più della mera maturazione di esperienza lavorativa, a pena di contraddire l’impianto stesso del principio di non discriminazione.
A conferma di tale conclusione la Corte ha proposto il secondo punto focale della sentenza, ossia che la natura discriminatoria del comportamento datoriale fosse dimostrata anche dal fatto che le assenze per malattia venivano comunque conteggiate quali periodi di servizio utili alla progressione di carriera.
La sentenza ci ricorda come sia sempre bene, anche nella interpretazione della clausole collettive, tener presente il quadro complessivo disegnato da norme costituzionali ed europee, così come interpretate dalle corti di più alto magistero.
Il Sole 24 Ore – 14 marzo 2018