Non può essere condannato per stalking l’uomo che perseguita la ex compagna con l’obiettivo di poter tornare a vedere la figlia. Lo chiarisce la Corte d’appello di Roma con la sentenza n. 537 del 2018. Infatti, osserva la sentenza della I sezione penale, il dolo del delitto di atti persecutori è integrato dalla consapevolezza di chi agisce sulla idoneità delle proprie condotte alla produzione di uno degli eventi dal Codice penale. E cioè a provocare nella persona offesa il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, oppure a costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. Il dolo, peraltro, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, «deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminale che oltrepassa i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi in concreto verificatisi».
Nel caso concreto lo stalking è stato escluso, perchè la condotta dell’uomo, pur concretizzata in una serie di episodi collegati tra loro, nasceva dalla sua volontà di esercitare, seppure con modalità assai discutibili, il diritto di visita della figlia minorenne e non intendeva realizzare un reale intento persecutorio a danno della ex convivente.
Determinante, sottolinea la Corte d’appello, il contesto logorato, conflittuale ed esasperatamente litigioso che ha fatto seguito allo scioglimento della coppia e fa da sfondo «all’alterato tentativo da parte del X di esercitare il diritto a frequentare e tenere con sé la propria figlia. Non emerge di contro alcun elemento di prova che induca a ritenere che la condotta del X fosse volutamente diretta a creare attorno alla ex convivente un clima di paura per la propria incolumità personale o a costringerla a mutare le proprie abitudini di vita».
Episodi come la presenza costante nei pressi dell’abitazione della donna, i calci alla porta, ma non la rottura della stessa, le telefonate particolarmente frequenti non possono essere ritenuti, nel quadro complessivo dei rapporti fra i soggetti del reato, solo riconducibili ad un intento persecutorio, essendo alternativamente ipotizzabile che l’atteggiamento dell’uomo fosse diretto ad avere contatti visivi con la figlia allorché ciò non gli veniva consentito.
Il cambiamento di residenza da parte della donna in realtà nel contesto post-separazione può essere letto come un avvicinamento, anche per ragioni logistiche e di opportunità, alla casa dei propri genitori e non a sfuggire alle condotte persecutorie dell’ex convivente, il quale avrebbe potuto ripetere anche nel nuovo domicilio (facilmente individuabile) le proprie condotte intimidatrici con analoghe visite indesiderate o attraverso cellulare.
Giovanni Negri – Il Sole 24 Ore – 13 marzo 2018