La buona notizia è che a premere sui giganti delle reti sociali e della comunicazione digitale affinché controllino con molta maggiore attenzione la diffusione delle fake news o di contenuti deleteri (pornografia, razzismo, reclutamento di terroristi e altro ancora) ora scende in campo una organizzazione economica altrettanto potente. Unilever, colosso dei prodotti di largo consumo e secondo inserzionista pubblicitario del mondo dopo Procter & Gamble, ha messo ieri con le spalle al muro Facebook, Google e gli altri protagonisti di questo mercato: se non cambiate rotta, diserteremo i vostri canali.
Chi decide
La notizia meno buona è che a decidere cosa è vero e cosa no, o cosa è nocivo per i ragazzi esposti in rete e cosa no, rischia di essere, anziché un’autorità investita di una qualche competenza e responsabilità pubblica, il produttore dei saponi Dove e Rexona, del tè Lipton e dei deodoranti Axe. L’altro dubbio che si può nutrire, dopo la sortita di ieri della multinazionale anglo-olandese, è se Unilever avrà davvero la forza di dare seguito alla sua minaccia: messe insieme, Facebook e Google (proprietaria anche di YouTube) controllano oltre la metà del mercato mondiale della pubblicità digitale e quasi due terzi di quello americano. Prescindere dai grandi megafoni della Silicon Valley, ormai considerati dei semi-monopoli, è molto rischioso per chi ha bisogno di vendere ovunque e in modo capillare un vasto portafoglio di prodotti alimentari, per la casa e la cura della persona.
Già un anno fa il leader del mercato pubblicitario, Procter & Gamble, indirizzò un avvertimento simile alle reti sociali. Quella sortita non ebbe seguito, ma allora la multinazionale americana si mosse sollevando il problema del danno che le veniva causato da messaggi di organizzazioni terroriste come l’Isis finiti sui social e che comparivano vicino alla promozione dei suoi prodotti. Stavolta quella del capo del marketing di Unilever è una mossa di portata più ampia e che pare attentamente calibrata: potrebbe essere solo l’inizio di un’offensiva destinata a coinvolgere altri gruppi.
Keith Weed, infatti, ha pronunciato ieri un discorso di fuoco con frasi come «non possiamo continuare a puntellare una catena di comunicazione digitale che a volte è una palude in termini di trasparenza» e «Unilever non investirà in piattaforme che non proteggono i nostri bambini, che creano divisioni nella società o promuovono rabbia e odio» in un’occasione solenne: la conferenza dell’Interactive Advertising Bureau, il summit annuale della pubblicità digitale, in corso in questi giorni in California. Un organismo che sempre ieri ha premiato lo stesso Weed nominandolo Global Marketer dell’anno: un riconoscimento appena istituito per premiare chi, dice la motivazione, fa un marketing «più efficace e sostenibile». È anche significativo che il discorso di Weed sia stato fatto pervenire con molte ore di anticipo alle principali testate giornalistiche inglesi e americane.
Negli ultimi anni reti sociali, canali video digitali e motori di ricerca sono riusciti a risucchiare gran parte della pubblicità che in precedenza andava soprattutto a produttori di contenuti giornalistici (stampa, tv, siti Internet) grazie alla loro maggiore capacità di segmentare il pubblico degli utenti ai fini della personalizzazione del messaggio promozionale. Queste società, però, per molto tempo hanno rifiutato di assumersi qualunque responsabilità per i contenuti messi in rete dai loro utenti. Tutto è cambiato con lo sfruttamento dei canali social da parte di organizzazioni che promuovono il terrorismo o la violenza e, poi, con la scoperta che servizi segreti stranieri, soprattutto russi, avevano usato questi stessi canali per tentare di sabotare le democrazie occidentali: dalle elezioni americane del 2016 alla Brexit.
Web e geopolitica
Finita nel mirino, Facebook prima ha negato ogni responsabilità, poi ha dovuto ammettere le sue colpe nel Russiagate promettendo di correre ai ripari. Nel caso delle elezioni italiane è stato fatto di certo uno sforzo, ma nel frattempo sono scoppiati molti altri casi, anche al di fuori della politica e in altre aziende. Ad esempio le trasmissioni, denunciate come diseducative, di alcuni canali YouTube dedicati ai minori. Mentre anche su Facebook un sistema di filtri troppo basato su algoritmi e preoccupato di non bloccare una quota rilevante di traffico (fa fatturato anche quello oltraggioso) ha lasciato passare ancora messaggi inaccettabili come quelli antisemiti a o sfondo pedopornografico. Adesso, nell’inerzia della politica, c’è qualcuno che prova a frenare questo trend. Non per un impulso etico ma perché l’oltraggio o il falso possono tradursi in danno economico.
di Massimo Gaggi – Il Corriere della Sera – 13 febbraio 2018