Dal regolamento sui Novel Food entrato in vigore il 25 novembre 2015 sono trascorsi due anni abbondanti, tempo necessario ai Paesi membri per recepire le direttive della Comunità europea e disporre le norme attuative. L’Italia è in ritardo sui tempi e così dal 1 gennaio le nostra imprese che operano nell’ambito dei “cibi nuovi” si trovano ai nastri di partenza in forte svantaggio rispetto a quelle estere, già pronte all’appuntamento. Questo è quanto emerge durante il pomeriggio di confronto al Parco Tecnologico Padano di Lodi, “Novel food Before Christmas”.
Norme europee difficili da decifrare
Tocca al professore Giovanni Coradini, direttore del dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Pavia, effettuare l’analisi della normativa, osservando quanto sia complessa e come necessiti di esperti in legislazione al fianco dei produttori per dialogare con le istituzioni, europee e italiane, e per rimanere aggiornati sulla lista degli alimenti permessi, formulata come aperta e sempre in divenire. Le quarantadue considerazioni preliminari e i trentasei articoli hanno come obiettivo la libera circolazione di nutrimenti sconosciuti alla tradizione occidentale prima del 15 maggio 1997, garantendo la salute del consumatore e tutelando il suo interesse. In primo piano, ovviamente, la sicurezza alimentare, accompagnata dalle opportune e chiare indicazioni in etichetta per ben informare l’acquirente. Dal 1 gennaio 2018 è compito degli operatori del settore fare domanda e presentare la complessa documentazione per permettere le immissione sul mercato di quegli alimenti non usati in Europa per il consumo umano.
Le aziende costrette ad emigrare
Di fatto Marco Ceriani di Italbugs denuncia che per costruire il suo allevamento di insetti è dovuto emigrare in Olanda, dove la materia è già regolamentata, mentre qui non ha risposta dalle istituzioni su come organizzare la produzione. Come impresa dal 1 gennaio 2018 – ma lui sostiene che possibili proroghe rimandano l’appuntamento effettivo a febbraio – entra nella GDO con i suoi preparati assieme ad altri competitor di oltralpe; il made in Italy nel suo settore però non ci può essere. Va meglio a Antonio Idà, Spireat e Algarìa, che lavora a Casalbuttano, nel cremonese, producendo alghe biologiche in un impianto ottimamente inserito in economia circolare con l’ambiente circostante: le vasche funzionano con l’anidride carbonica presa dall’atmosfera e col calore scarto dei biogas; residui del processo sono acqua e nutrienti, destinati alle coltivazioni. Sul mercato va la spirulina, composta da 18 amminoacidi, tra i quali 9 essenziali, 60% proteine, 10% di fibre, ricca di vitamine del gruppo B e minerali.
Il ole 24 Ore Food – 6 dicembre 2017