L’impiego indiscriminato nel passato di penicilline anche a basse dosi negli allevamenti di animali da reddito (il divieto in Europa è subentrato nel 2006) potrebbe avere avuto un ruolo più rilevante di quanto pensato nella diffusione di ceppi batterici resistenti all’ampicillina – una delle penicilline più usate in ambito umano – già nei primissimi anni dopo il suo arrivo in commercio. Lo suggerisce uno studio francese appena pubblicato sulla rivista Lancet Infectious Disease, a ulteriore conferma della necessità di un approccio One Health, che tenga cioè conto delle strettissime connessioni tra salute umana, salute animale e caratteristiche ambientali, per affrontare quella che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce una delle grandi emergenze sanitarie dei nostri tempi: l’antibiotico-resistenza.
Lo studio, condotto da ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi, prende le mosse da un evento considerato insolito: il passaggio di un brevissimo lasso di tempo tra l’arrivo in commercio dell’ampicillina, nel 1961, e la comparsa nell’uomo dei primi focolai di infezioni da Salmonella resistente all’ampicillina stessa, avvenuta tra il 1962 e il 1964 in Gran Bretagna. Per capire che cosa abbia reso possibile una diffusione così rapida della resistenza, gli studiosi hanno analizzato la sensibilità agli antibiotici di 288 ceppi “storici” di Salmonella, raccolti in oltre 30 paesi da varie fonti – esseri umani, ma anche animali d’allevamento, mangimi e alimenti – tra il 1911 e il 1969.
Sono stati trovati 11 ceppi resistenti, per lo più di origine umana, alcuni risalenti alla fine degli anni cinquanta: l’analisi genetica ha svelato che nei vari ceppi la resistenza era dovuta a geni differenti, suggerendo che il fenomeno si è originato contemporaneamente in diverse popolazioni batteriche sparse nel mondo. Per spiegare il fatto che sono stati trovati ceppi resistenti risalenti a prima della commercializzazione dell’ampicillina per uso umano gli autori chiamano in causa un possibile ruolo degli allevamenti. In effetti già negli anni cinquanta era molto diffusa, sia negli Stati Uniti sia in Europa, l’abitudine di aggiungere basse dosi di penicillina G (parente stretto dell’ampicillina) ai mangimi per animali da reddito, con l’obiettivo di prevenire malattie e potenziarne la crescita. D’altra parte, altri esperimenti condotti dal team francese hanno confermato che basta l’esposizione a basse dosi di penicillina G a promuovere il trasferimento di geni coinvolti nella resistenza all’ampicillina tra differenti ceppi di Salmonella originariamente non resistenti.
“I risultati della nostra ricerca suggeriscono che i residui di antibiotici che finiscono nel letame, nelle acque di scolo e nei terreni circostanti gli allevamenti hanno un impatto addirittura superiore al previsto nella diffusione di resistenze”, ha dichiarato Francois-Xavier Weill, coordinatore dello studio. Si tratta, insomma, di un’ulteriore conferma del ruolo rivestito – ormai da decenni – dalle pratiche agricole nella selezione e diffusione di batteri resistenti agli antibiotici. Ecco perché – concludono gli autori – è più che mai necessario puntare su un approccio One Health, capace di tenere conto delle relazioni tra salute umana e animale, tra medicina e agricoltura, per affrontare il problema dell’antibiotico-resistenza. Un problema gravissimo, se si considera che già oggi le infezioni resistenti uccidono circa 25 mila persone all’anno nella sola Europa. E la stima è che, nel mondo, i morti dovuti a questa causa sfioreranno i 10 milioni entro il 2050.
Come ricorda un editoriale pubblicato a commento dello studio di Weill e colleghi, “in Europa l’utilizzo di antibiotici negli allevamenti come promotori della crescita è vietato dal 2006, senza che ci siano state conseguenze negative per la produttività animale, ma con una significativa diminuzione della resistenza agli antibiotici in allevamenti di maiali e pollame”. Il divieto europeo però non basta, perché “l’uso estensivo di antibiotici in allevamenti e in acquacoltura continua, in particolare nei paesi a basso e medio reddito e in quelli a rapida crescita economica”.
Sull’argomento si è pronunciata di recente anche l’Organizzazione mondiale della sanità, che lo scorso 7 novembre ha emanato delle nuove linee guida relative proprio all’utilizzo di antibiotici importanti dal punto di vista medico in animali allevati a scopo alimentare. Le indicazioni sono molto stringenti: no all’uso di antibiotici come promotori della crescita, sì all’uso in animali sani per la prevenzione di malattie solo se queste sono state effettivamente diagnosticate in altri animali dell’allevamento. Per quanto riguarda gli animali malati, di volta in volta andrebbe utilizzato l’antibiotico più specifico per la malattia in questione, tra quelli selezionati da una lista che comprende gli antibiotici meno rilevanti per la salute umana. Da evitare, invece, l’impiego negli allevamenti di quelli classificati come critici per la nostra salute, perché potrebbero rappresentare l’ultima linea di difesa contro malattie mortali.
Valentina Murelli – Il Fatto alimentare – 4 dicembre 2017