Se davvero sarà stata una «giornata storica» lo si capirà solo alla fine dell’iter, quando, dopo la trattativa con il governo, sarà chiaro quante e quali materie di competenza statale passeranno di mano. Ma ieri Lombardia e Veneto hanno superato la prova dei referendum consultivi indetti per ottenere maggiore autonomia.
Nella Regione governata da Luca Zaia, dove c’era il quorum del 50 per cento, l’ostacolo è stato oltrepassato già alle 19 e alla chiusura dei seggi ha assunto proporzioni rilevanti, il 57 per cento (malgrado un attacco hacker che ha violato il doppio livello di sicurezza). In Lombardia, dove al contrario non era necessario raggiungere un tetto minimo, l’affluenza si è attestata intorno al 40 per cento, secondo le stime di Maroni. Dato superiore al 34 per cento indicato alla vigilia come soddisfacente dal governatore (a palazzo Lombardia ci sono stati problemi con il voto elettronico).
In Veneto, dove l’iniziativa referendaria era stata varata dal Consiglio regionale all’unanimità, la provincia che ha fatto registrare il maggior numero di votanti è stata quella di Vicenza (con punte vicino al 70 per cento), seguita da Padova e Treviso. In Lombardia, invece, la palma dei più sensibili al richiamo referendario è toccata ai bergamaschi (il sindaco del capoluogo, il pd Giorgio Gori, aveva invitato a votare Sì), seguiti da lecchesi e bresciani. In fondo alle rispettive classifiche, si trovano Venezia e Milano, come se il tema dell’autonomia faticasse a sfondare nelle città metropolitane. Il Sì ai quesiti che chiedevano maggiore autonomia ha ottenuto percentuali bulgare (oltre il 95 per cento), ma è passato in secondo piano perché chi si opponeva (frange di Fratelli d’Italia e del Partito democratico) ha preferito invitare a starsene a casa. La partita si giocava sull’affluenza e lì la risposta è stata inequivocabile come conferma il coro di commenti arrivati da destra a sinistra che lodano la partecipazione popolare. Al di là della Lega, che si intesta il successo avendo la primogenitura della battaglia, nel coro di politici che si dicono soddisfatti per l’affluenza ci sono Debora Serracchiani (Pd), Renato Brunetta (Forza Italia), Gaetano Quagliariello (Idea), Stefano Parisi (Energie per l’Italia), Giovanni Endrizzi (M5S). L’unica stecca nel coro è quella di Giorgia Meloni. Per la presidente di Fratelli d’Italia «i referendum non sono stati un plebiscito, le riforme si fanno tutti insieme e non a pezzi».
La partita ora si sposta sul piano istituzionale. I referendum erano consultivi, servivano a Maroni e Zaia per avere maggiore forza nella trattativa che la Costituzione prevede con il governo. Nei prossimi giorni i rispettivi consigli regionali daranno mandato ai presidenti di procedere. I tempi sono stretti. Al più tardi tra fine gennaio e metà febbraio il confronto con Roma entrerà nel vivo.
Ora inizia la trattativa – Il Veneto vuole più soldi, avrà (forse) il potere di spenderli meglio
Si fa presto a dire «autonomia». Ma di che si sta parlando, esattamente? Di quella di Trento e Bolzano, come va ripetendo il governatore Luca Zaia tra le perplessità degli stessi leghisti? O di quella del Friuli Venezia Giulia, depotenziata e quindi assai meno ambita? O di un modello tutto nuovo, cucito su misura per il Veneto sulla base degli articoli 116 e 117 della Costituzione, avanguardia di quel «regionalismo differenziato» (o a geometria variabile) tratteggiato dai costituzionalisti dell’università di Padova, da Mario Bertolissi a Luca Antonini?
Gli statuti speciali Non tutte le Regioni a statuto speciale sono uguali: alcune sono «più uguali» delle altre e per questo si parla talvolta di «specialità nella specialità». Esiste però un comun denominatore, dato dal fatto che la finanza delle Province autonome di Trento e Bolzano e delle Regioni Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta non è «derivata», basata cioè su trasferimenti stabiliti di anno in anno da Roma (con i relativi, immancabili tagli), bensì «compartecipata» a quota fissa e soprattutto «senza vincolo di destinazione». Qui sta tutta la differenza: anche il Veneto, come le altre Regioni ordinarie, «compartecipa» all’Iva e all’Irpef ma le relative risorse, ad ogni legge di Bilancio ricalcolate dallo Stato, sono vincolate (alla Sanità, per lo più: pesa per 8 dei 12 miliardi del bilancio regionale) e sfuggono all’azione politica di Palazzo Balbi, che non può disporne liberamente.
Da questo punto di vista, a godere dell’autonomia maggiore è la Sicilia, seguita dalla Valle d’Aosta (dopo l’accordo del 2009) e dalle Province autonome di Trento e Bolzano (dopo l’accordo di Milano). Ci si chiederà: ma allora perché la Sicilia versa in difficoltà croniche mentre il Trentino Alto Adige pare l’Eldorado? Ovviamente c’entra l’uso responsabile delle risorse ma anche il fatto che al Nord la capacità fiscale è più elevata (i 9/10 di Bolzano non «pesano» in valori assoluti come i 9/10 di Palermo) e c’è una maggior capacità di negoziazione con lo Stato, che si traduce in più ampie competenze di spesa (fatta la media, la spesa pro capite delle Regioni speciali è di 5.723 euro contro i 3.033 delle Regioni ordinarie).
Il risultato pratico è stato riassunto così dal professor Antonini: «Per il turismo nel 2013 l’intera Regione Veneto ha speso 17 milioni. Nello stesso anno la provincia di Trento ha potuto impegnare 57 milioni e quella di Bolzano 38 milioni. In Trentino Alto Adige una famiglia povera, con reddito sotto i 13.500 euro, con almeno due figli, riceve un assegno che può raggiungere i 450 euro al mese. Un dottorando che sceglie di studiare fuori regione riceve una borsa di studio fino a 700 euro al mese; un insegnante guadagna 2.480 al mese euro contro i 1.697 in Veneto; per l’avvio di un’impresa si può beneficiare di contributi a fondo perduto che possono arrivare fino al 40% della spesa e di mutui fino a 30 mila euro; un’impresa che vuole ristrutturarsi riceve contributi fino a 3 milioni di euro. L’Irap? Dal 2013 è azzerata per 5 anni per tutte le nuove imprese».
Certo, lo stesso non accade in Friuli Venezia Giulia o in Sardegna (le più «deboli» tra le Regioni speciali) ma è facile immaginare i risultati che il meccanismo della compartecipazione senza vincoli, anche su percentuali più basse, potrebbe avere in una Regione con il Pil del Veneto: 152 miliardi di euro.
La trattativa È lecito sognare, dunque, ma il sogno potrà mai avverarsi? La risposta del sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa è sempre stata lapidaria: no. «L’unica via che può seguire il Veneto è quella indicata dagli articoli 116 e 117 della Costituzione» ha detto e ridetto, e cioè l’ormai celeberrima «trattativa Stato-Regione» già avviata dall’Emilia Romagna, secondo i leghisti in tutta fretta al solo scopo di «disturbare» il referendum di Veneto e Lombardia. E qui la questione si fa complessa. La lista delle materie su cui Zaia intende estendere le competenze della Regione è molto lunga e articolata, sono ben 23. Il governatore chiede poi di trattenere in Veneto i 9/10 dell’Irpef, dell’Ires e dell’Iva riscosse qui (il «modello Trento e Bolzano» categoricamente escluso da Bressa), denari che verrebbero poi utilizzati per gestire in totale autonomia, tra le altre, la sanità, l’istruzione (compreso il personale docente e amministrativo), la ricerca scientifica e tecnologica, il governo del territorio, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, i rapporti internazionali e con l’Ue, la protezione civile. A queste potestà, legislative e amministrative, se ne aggiungerebbero poi una miriade di altre, soltanto amministrative, che vanno dalla gestione dei fondi rotativi e di garanzia alla previdenza complementare, dall’energia alle sovrintendenze fino alle scuole paritarie.
L’elenco è contenuto nelle 37 pagine già spedite a Roma da Zaia ma come sempre quando si ragiona sulle norme costituzionali, si tratta più che altro di «titoli» (l’istruzione, l’ambiente) che andranno poi declinati e riempiti di contenuti. E proprio questo è lo scopo della trattativa, che non sarà né facile, né breve (basti pensare che solo per ottenere la gestione delle strade la Provincia di Trento ci ha messo la bellezza di 6 anni) e anche per questo Zaia ha deciso di farsi affiancare da un board tecnico che può contare, oltre che sui costituzionalisti Antonini e Bertolissi, sul professore di Scienza delle Finanze Carlo Buratti. E ne faranno parte anche esponenti dell’Anci (i Comuni) e dell’Upi (le Province).
Il residuo fiscale Tutto questo permetterà davvero al Veneto di trattenere sul territorio più soldi, il famoso residuo fiscale? Ora, a parte che l’ammontare di quest’ultimo balla a seconda dei metodi di calcolo utilizzati (si va da 3,5 a 23 miliardi, con un recente riposizionamento a 15) in realtà, come ha chiaramente spiegato Luciano Greco, professore di Scienza delle finanze dell’università di Padova, «l’autonomia non darà “più risorse”, perché qualsiasi devoluzione di competenze deve avvenire senza squilibri per le finanze pubbliche. Cambierà solo l’intestazione di chi le utilizza, dallo “Stato” alla “Regione”. Lo stipendio di un docente, per esempio, resterà lo stesso nell’ammontare ma sarà erogato da un soggetto diverso. Ciò che potrebbe cambiare, questo sì, è l’efficienza della spesa». Semplificando: se per la gestione delle strade in Veneto lo Stato spende oggi, tramite Anas, 500 milioni l’anno (cifra causale, a mero titolo di esempio), un domani la Regione potrà spendere, tramite Veneto Strade, sempre 500 milioni. Ma è vero che se per fare le stesse cose, grazie alla sussidiarietà verticale e alle vicinanza al territorio, la Regione dovesse spendere 470 milioni, ben potrebbe decidere di reinvestire quei 30 milioni altrove, chissà, magari per fare una decina di piste ciclabili. Il che davvero ci avvicinerebbe un po’ di più all’Alto Adige.
LA QUESTIONE VENETA
Il plebiscito, l’unità postbellica, il federalismo: storia di una diversità
Iniziare questa storia con il plebiscito del 1866 non è poi chissà quale capriola nel passato, ma una semplice constatazione. A suggerirlo, in fondo, è lo stesso Luca Zaia, quando ha fissato il referendum per l’autonomia del Veneto proprio al 22 ottobre. Una data scelta non a casaccio: era il 21-22 ottobre 1866 quando quasi 650mila veneti (e mantovani) si recarono alle urne per confermare con plebiscito l’unione alla corona sabauda seguita alla sconfitta austriaca nella Terza guerra d’indipendenza. «Qualcuno li giudica pochi? Non è così. Con una popolazione di due milioni e 600 mila veneti, tolte le donne e i bambini, è un numero importante. Poi, è vero che ci furono dei brogli. Ma questo è un classico di tutti i plebisciti», ragiona lo storico Giovanni Sabbatucci.
Serenissimi Fare la storia dell’autonomismo veneto, della voglia più o meno irresistibile di andarsene per conto proprio, lontano da Roma, è come segnare su un grafico le oscillazioni della corrente elettrica: su e giù, più forte o più debole. Mai costante. Il rapporto con Roma, negli ultimi centocinquantuno anni, è stato da queste parti un filino contraddittorio, per dirla con un eufemismo. Non sempre, infatti, i veneti hanno manifestato il sentimento dell’indipendenza e della ribellione anticentralista al modo in cui lo hanno sentito le generazioni degli anni Ottanta e Novanta. Quelle, per intenderci, che partorirono il pittoresco assalto al campanile di San Marco dei nove Serenissimi (era l’8 maggio del 1997), quelle del popolo delle partite Iva che si mettevano esasperate in coda sulla tangenziale di Mestre o sul Terraglio (il Passante era di là da venire, per andare a Padova da Treviso ci potevano volere anche due ore, e il governo romano era quello che non costruiva le strade). Ma anche quelle (chi se li ricorda?) dei mitici convegni del LIFE, che non si leggeva all’inglese e non era una rivista patinata di mondanità cosmopolita, bensì i Liberi Imprenditori Federalisti Europei: movimento antitasse di Fabio Padovan e Daniele Quaglia, a cavallo tra leghismo e liberismo. Andarsi a rivedere le foto di allora restituisce in modo icastico il mood del Veneto di metà anni Novanta: sullo sfondo le bandiere col leone di San Marco, in primo piano loro, gli imprenditori, con il numero di partita Iva scritto direttamente in fronte, «perché siamo numeri, non persone».
Il lungo sonno Ecco, prima di tutto questo, prima della Liga Veneta e poi della Lega Nord, prima dei trionfi elettorali di Zaia del 2010 e del 2015, e in ultimo del referendum di oggi, c’è stato un mezzo secolo. Dopo la Grande Guerra, in cui il Piave, il Grappa, il Montello diventano simboli tricolori «sacri alla Patria», c’è il lungo sonno novecentesco. O almeno, a prima vista potrebbe sembrare così. Cinema e letteratura restituiscono l’immagine di un Veneto placido, bonario, lontano da ogni ribellismo, men che meno quello antiromano: l’archetipo dello Strapaese dove neppure arriva l’allegro conflitto tra rossi e bianchi, come nella vicina Emilia di Guareschi. No, il Veneto è solo campi e parrocchie. Vicenza è sacrestia d’Italia, i Veneti ancora poveri e affamati non vedono l’ora di andarsene, sognano Roma e Milano, i piccoli imprenditori ribelli della Pedemontana sono di là da venire. Nel 1965 Pietro Germi racconta Treviso in Signore & Signori, ed è un racconto definitivo, totale, che quasi sigilla l’identità di una città in uno stereotipo geniale e spassoso: Treviso crapulona e ipocrita, Treviso iperprovinciale, Treviso che beve, mangia e tradisce, «tuo marito fa l’amore con Milena, al bar cassiera / Sei cornuta a tutte le ore, sei cornuta da mattina a sera», (a leggere il biglietto è Osvaldo Bisigato alias Gastone Moschin, a cui il Veneto dovrebbe dedicare molte piazze). Dieci anni prima, ne Gli Americani a Vicenza, Goffredo Parise era stato più fiabesco e surrealista, ma anche qui la provincia veneta era soavemente addormentata, piccole isole di cittadine che correvano faticosamente dietro alla modernità in mezzo a una campagna onnipotente. Un po’ come in Libera nos a Malo, indimenticabile ritratto di Luigi Meneghello di un luogo e della sua gente: il fascismo prima, gli americani poi sono l’anelito di un Veneto dove chi ha uno straccio di titolo di studio sogna tutt’altro che l’autonomia: sogna la città, il progresso, la connessione col mondo. E ancora nel 1970 La moglie del prete di Dino Risi mostra una Padova sempre bloccata nel solito schema, amore ingenuo versus controllo sociale, bigotteria soffocante, come se il Sessantotto non ci fosse mai stato. Cartoline dal Santo di una città che al massimo vorrebbe imitare Milano, diventare hub di commerci, ma non ci riesce.
Proto-Leghisti Eppure le cose non sono così semplici. Dietro le pagine dei libri, lontano dalle raffigurazioni della cinematografia, sotto l’ineffabile triade democristiana Piccoli-Rumor-Bisaglia che nel dopoguerra gestisce in regime di monopolio la connessione politica Venezia-Roma, cova qualcosa. I più accesi venetisti di oggi, come Ettore Beggiato, ricordano che correvano i primi anni Venti quando il parlamentare repubblicano di Montebelluna Guido Bergamo già denunciava «il governo centrale di Roma, questo governo di filibustieri, di ladri e camorristi organizzati» e invocava «la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l’ammontare delle imposte dirette nel Veneto». Un proto-leghista, insomma. Ma per vedere il primo embrione dell’autonomismo organizzato bisogna aspettare la metà degli anni Sessanta: è il Marv, movimento autonomo regionalista veneto, che sostiene l’istituzione delle regioni, previste dalla Costituzione e attivate di lì a poco, nel 1970. Sta nascendo qualcosa di nuovo: in futuro lo si chiamerà venetismo, allora è ancora un fenomeno a cavallo tra la filologia (dalla Società filologica veneta verrà Franco Rocchetta, futuro dominus dell’autonomismo), la protesta e la rievocazione nostalgica. Eppure il riferimento alla illegittimità del 1866 è già presente. Nel 1979, al congresso fondativo di Recoaro della Liga Veneta il programma recita testualmente: «il Veneto è, di fatto, dal 1866 una colonia d’Italia», «secondo un piano ricorrente di sopraffazione, sfruttamento ed alienazione». Boom. Alle politiche del 1983 il movimento elegge due parlamentari, Achille Tramarin e Graziano Girardi. I consensi per l’autonomismo crescono lungo la Pedemontana, qualcuno se ne accorge e cerca di correre ai ripari: Antonio Bisaglia invoca una CSU, sul modello bavarese, che non si farà. E in un’intervista dice: «il Veneto sarebbe maturo per uno Stato federalista, ma questo Stato, centralista e burocratico, alla mia regione l’autonomia non la concederà mai». Comincia da subito anche un’altra storia, parallela: quella dei rapporti, mai idilliaci, sempre dialettici, tra indipendentisti veneti e delle altre regioni del nord. Da una parte, in Lombardia, i giovani Umberto Bossi e Roberto Maroni. Dall’altra i veneti, che hanno come primi leader lo stesso Rocchetta e la moglie Marilena Marin, cui succederà poi Fabrizio Comencini. Verso l’alleanza che debutterà alla fine degli anni Ottanta: la Lega Nord.
Piccole patrie I tempi cambiano, con l’oratoria bossiana l’autonomismo diventa un affaire di cui si parla sui giornali, prende nuovi nomi e sfumature: «federalismo» è il nuovo mantra, di «secessione» si parla nel lessico familiare della politica. Ecco i primi amministratori autonomisti, i sindaci rocciosi e incazzosi. Nella stessa Marca trevigiana dove si erano ritirati Comisso e Parise arriva una genia di politici un po’ barbari, eppure in straordinaria sintonia con un nuovo popolo ribelle, sfuggito alle rilevazioni e al sentimento dell’establishment democristiano. Sarà insomma l’era di Giancarlo Gentilini su tutti (ben prima del presidente di provincia Zaia, l’uomo delle rotatorie, e dello sceriffo di Cittadella Massimo Bitonci), sindaco di Treviso dall’oratoria variopinta, «spariamo addosso ai clandestini come ai leprotti», e ne avrà anche per il povero Comisso: lo scrittore trevigiano per Genty «in fondo el gera reciòn», ricorda Gian Antonio Stella. A Parise invece toccherà il tentativo (postumo) di annessione dei venetisti, che vorrebbero farlo passare per uno di loro, dimenticando le aspre parole che lo scrittore riservò al «dialetto» veneto («lo detesto», «culturame regionalistico»). Fino al leggendario sfogo in diretta Rai che Mario Rigoni Stern riservò a Carlo Sgorlon, proprio in un dibattito sull’indipendenza: «le piccole patrie? In mona le piccole patrie!». Si era, ricorda Alessandro Marzo Magno, alla fine degli anni Novanta. In questi ultimi due decenni le dinastie dell’autonomismo si sono succedute, con alterne fortune: grandi ruggiti ma non troppi voti per le fazioni più agguerrite (Alessio Morosin e gli indipendentisti nel 2015 raccolgono solo il 2,5%), qualche tentativo un po’ lunare di emulazione a sinistra (gli indipendentisti «socialdemocratici» di Sanca Veneta), grande consenso per il Governatore. In tutto questo, è lui, Zaia, la vera Balena bianca: capace di sintesi tra il fermento antico di un venetismo mai sopito e l’imperativo categorico di ogni politico, cioè sbancare le urne, è stato l’unico, nella galassia veneta, a portare il sogno dell’autonomia (autonomia: nuova, moderata declinazione dell’indipendenza) a Palazzo Ferro Fini, sul Canal Grande. E adesso, alla prova del voto. Con un occhio da mandriano che sorveglia il suo territorio, Zaia oggi si gioca una partita lunga più di un secolo. Sì, sono centocinquantun anni.
Il Corriere della Sera e il Corriere del Veneto – 23 ottobre 2017