Arriva la «bollinatura» del ministero dell’Economia sulla «direttiva madre» di Funzione pubblica che fa ripartire ufficialmente le trattative sul pubblico impiego. Il passaggio a Via XX Settembre, dove il testo è stato messo sotto esame per le sue ricadute finanziarie, si è fatto sentire, soprattutto su due passaggi chiave: tramonta definitivamente l’idea di una tutela più o meno automatica del bonus da 80 euro, che per un gruppo consistente di dipendenti pubblici rischia di cadere proprio in virtù degli aumenti contrattuali, e cade l’indicazione di destinare al tabellare, cioè alle voci fisse della busta paga, tutte le risorse individuate finora dalle manovre per finanziare i contratti. La trattativa, insomma, sembra iniziare in salita.
Il nodo più intricato è quello degli 80 euro. I nuovi contratti, in base all’intesa fra governo e sindacati del 30 novembre scorso, dovrebbero garantire aumenti medi da 85 euro lordi mensili, quindi da 1.105 euro su base annua (13 mensilità). Lo stesso accordo di novembre, però, prevedeva di «evitare penalizzazioni indirette prodotte dagli aumenti contrattuali» sul bonus da 80 euro. Nel testo finale della direttiva, invece, questo obiettivo sfuma nella prospettiva per cui «le parti valuteranno» gli effetti incrociati fra aumenti e bonus «suggerendo eventuali misure correttive»: il tutto accadrà «qualora necessario» e, soprattutto, «nei limiti delle risorse destinate all’obiettivo di incremento contrattuale».
Proprio quest’ultima è la clausola decisiva, perché impone in pratica di sottrarre agli «85 euro medi» tutti i soldi da dirottare alla sterilizzazione degli effetti collaterali sul bonus. Il problema riguarda tutti i rinnovi contrattuali ma è particolarmente sentito nel pubblico impiego perché molti stipendi pubblici si collocano nella fascia fra 24mila e 26mila euro, cioè nel decalage che diminuisce il bonus all’aumentare del reddito. A 24mila euro di reddito il bonus è pieno, 960 euro all’anno, ma scende a 720 a 24.500 euro per arrivare a 480 a 25mila euro; a 25.500 euro di reddito si attesta a 240 e si azzera dai 26mila euro di reddito in su. Per questa ragione, per esempio, chi oggi ha un reddito da 25mila euro, e riceve 480 euro di bonus, con gli aumenti contrattuali rischia di vederselo azzerare. Lo scambio, in questo caso, sarebbe fra un aumento da 85 euro lordi e una perdita da 40 euro netti. A conti fatti, tra Irpef nazionale e locale, il nuovo contratto porterebbe ben poco: mancano dati ufficiali sulla platea a rischio, ma le stime circolate nei mesi scorsi parlano di circa 200mila persone. L’idea di una tutela preventiva, del resto, era generosa nelle intenzioni ma difficilmente praticabile: il bonus si calcola sul reddito complessivo, e non solo su quello da lavoro dipendente, per cui è impossibile determinare in anticipo la platea da tutelare e quindi la spesa da dedicare.
Tutta da discutere, poi, rimane la distribuzione degli aumenti fra parti fisse e accessorie: i sindacati chiedono di schiacciare tutti gli 85 euro sul fisso, ma nel testo definitivo è saltata anche l’indicazione che ancorava a questa voce le risorse già stanziate finora (che valgono circa 40 euro a dipendente).
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 7 luglio 2017