È attualmente al vaglio del Senato una (curiosa) proposta di modifica della normativa che disciplina gli obblighi di attestazione in caso di assenza dal lavoro per i primi tre giorni di malattia.
L’attuale normativa prevede l’obbligo di certificare ogni assenza per malattia, anche se di breve durata, a opera del medico e previo accertamento dello stato di malattia. Il disegno di legge, partendo dal presupposto che la malattia di breve durata è ricollegabile a sintomi riferiti dal paziente non suscettibili di essere effettivamente verificati dal medico – il quale, nei fatti (secondo i promotori della legge) si limiterebbe a prendere atto di quanto riferito dal paziente (e già questo stupisce…) – propone che, laddove l’assenza sia di durata non superiore ai tre giorni, il lavoratore possa limitarsi a comunicare, sotto la sua responsabilità, «il proprio stato di salute» (si badi non la malattia, che ovviamente da solo non può accertare…) al medico il quale, senza dover provvedere ad alcuna visita o accertamento, lo comunica all’Inps e al datore di lavoro. Sarebbe pertanto sufficiente scrivere: «Comunico che oggi, e per i prossimi due giorni il mio stato di salute non è perfetto», per starsene a casa.
L’errore della norma proposta è grave e palese: ciò che dovrebbe determinare il diritto del lavoratore di sospendere la sua obbligazione principale – cioè quella di prestare la propria attività lavorativa – pur continuando a ricevere la retribuzione, non è l’esistenza sic et simpliciter di una malattia, ma l’esistenza di una malattia che non gli consenta di svolgere l’attività lavorativa (o che possa determinarne l’aggravamento). Un orzaiolo, un fungo sulla pelle preso in piscina o un raffreddore sono certamente malattie, ma non sono tali (se non nei casi più gravi) da impedire l’esecuzione della prestazione lavorativa. L’esistenza della malattia e della sua gravità, e quindi l’impossibilità temporanea di svolgere la prestazione lavorativa, non possono prescindere da un accertamento medico.
Quanto agli aspetti sanzionatori per le ipotesi di falsa attestazione da parte del medico – peraltro non applicabili nel caso di malattie fino a 3 giorni perchè non accertate – vengono comunque ampiamente ridotti: sostanzialmente conseguenze di tipo disciplinare irrogate dall’ordine cui appartiene oppure dalla struttura sanitaria pubblica con la quale è convenzionato. L’attuale disciplina prevede che in capo a quest’ultimo siano applicate le medesime sanzioni previste in capo al lavoratore che si avvalga di una certificazione falsa – vale a dire la reclusione da uno a cinque anni e la multa da 400 a 1.600 euro – e la radiazione dall’albo, nonché il licenziamento per giusta causa (se dipendente di struttura pubblica) o la decadenza dalla convenzione (se trattasi di medico convenzionato con il Ssn).
Francamente è difficile capire il perché di tale proposta di modifica, che certamente determinerebbe un notevole aumento delle assenze senza alcuna possibilità per i datori di lavoro di reagire. Ogni controllo sarebbe infatti impossibile. Al quarto giorno lo «stato di salute» tornerà normale, e non potrà certo accertarsi ciò che neppure si sa cosa fosse. Proposte di legge totalmente prive di senso e foriere di conseguenze nefaste per il Paese. (Franco Toffoletto – Il Sole 24 Ore)
SOLUZIONE NON PRATICABILE PER I RITARDI CRONICI DEL PAESE
Se fossimo un Paese normale la proposta contenuta nel Ddl di iniziativa del senatore Maurizio Romani, di consentire l’autocertificazione per i primi tre giorni di assenza dal lavoro per malattia, non susciterebbe stupore. Una proposta, è bene precisare, che allo stato è circoscritta al solo lavoro alle dipendenze della Pa ma che, in caso di approvazione, potrebbe poi essere rapidamente estesa anche al settore privato.
Se fossimo un Paese normale potremmo ritenere la proposta una logica conseguenza del testo di legge da poco approvato dal Parlamento sul lavoro agile. Le tecnologie di nuova generazione, che consentono di lavorare in ogni luogo e a ogni ora, stanno demolendo la centralità dell’ufficio orientando i rapporti di lavoro verso logiche fiduciarie e collaborative. Un cambio di paradigma, quello dello smart working, che lascia presupporre il passaggio dalle dinamiche gerarchiche di comando e controllo tipiche del Novecento industriale a un nuovo umanesimo del lavoro scandito da parole d’ordine come fiducia, responsabilità, obiettivi. Tutto questo con benefici per imprese e lavoratori. Le prime in termini di maggiore produttività e di una cultura manageriale focalizzata sui risultati più che sulla semplice presenza al lavoro. I secondi in termini di maggiore benessere e di una migliore conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.
Se fossimo un Paese normale potremmo ricollegare la proposta ai grandi cambiamenti demografici che colpiscono l’Italia più di altri Paesi per l’invecchiamento della popolazione attiva. Già oggi in Europa quasi il 25% della popolazione in età di lavoro soffre i disturbi di almeno una malattia cronica mentre la quota di malati cronici che lavora è pari al 20% della forza-lavoro. Bene, dunque, attrezzarci per gestire, anche negli ambienti di lavoro, le patologie più gravi, lasciando alla libertà e responsabilità delle persone la gestione delle malattie brevi e meno invasive. Non a caso la stessa evoluzione della contrattazione collettiva si sta muovendo in questa direzione mediante la responsabilizzazione dei lavoratori con la riduzione della retribuzione via via che si reiterano assenze per malattie brevi. Senza dimenticare poi che oggi per un lavoratore è assai semplice farsi rilasciare un certificato medico adducendo malesseri che difficilmente sono verificabili sul piano clinico con limitate possibilita? di accertamento da parte del medico.
Tutto vero e bello se per l’appunto fossimo un Paese normale. Un Paese in cui leggi importanti come la 104, per l’ assistenza ai disabili, non fossero largamente abusate. Un Paese in cui, ciclicamente, emergono nuovi sconcertanti episodi dell’esercito dei furbetti del cartellino e dove la notte di Capodanno oltre l’80% dei vigili urbani della Capitale può risultare assente per malattia senza alcuna conseguenza.
Proposte che portano a prendere consapevolezza del futuro del lavoro vanno discusse senza pregiudizi. E tuttavia è difficile farlo in Italia, pena iscriversi nel partito degli illusi e dei sognatori. Eppure sono proprio questa impreparazione e questo ritardo culturale a incidere pesantemente sul deficit di sviluppo e sulla bassa produttività del lavoro del nostro Paese. A essere penalizzate sono così tutte le parti in gioco. I lavoratori, che non possono gestire in modo responsabile le malattie brevi, ma anche le imprese che faticano a sviluppare logiche collaborative e rapporti fiduciari propri della Quarta rivoluzione industriale. (Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore)
7 luglio 2017