La strada che dovrà portare al rinnovo dei contratti collettivi per i dipendenti della Pa è tutt’altro che spianata. Il primo incontro fra Aran e organizzazioni sindacali, previsto per domani, rappresenta sicuramente un passo in avanti, ma le difficoltà da superare sono molteplici e non di facile soluzione.
Oltre all’aspetto economico, parecchie sono le questioni di carattere giuridico. Una delle più spinose si gioca sul tavolo che riguarda il fondo per il salario accessorio, dove le parti devono fare i conti anche con le novità introdotte dalla riforma Madia. Il Dlgs 75/2017, all’articolo 23, affida infatti alla contrattazione collettiva un compito ben preciso: l’armonizzazione dei trattamenti economici. Questo si dovrà tradurre non solo in una parificazione della parte fondamentale, ma anche in una via privilegiata delle risorse destinate al salario accessorio verso quei comparti che hanno fondi per la contrattazione più leggeri.
Ma l’intervento normativo non si ferma qui e si spinge disponendo che, in attesa dell’armonizzazione e a partire dal 1° gennaio scorso, le risorse destinate al trattamento accessorio, sia dei dirigenti sia del personale non dirigente, non possono superare l’analogo importo calcolato per il 2016. In sostanza si ripropone il vincolo introdotto, a suo tempo, dall’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010 per il triennio 2011/2013, prorogato per il 2014 dall’articolo 1, comma 1, lettera a), del Dpr 122/2013 e riproposto per il 2016 dal comma 236 della legge 208/2015. In verità, rispetto al passato, il vincolo perde una variabile: mentre sono confermate, nella sostanza, le regole sul tetto, nella nuova norma non è più presente la riduzione in base ai dipendenti cessati, anche tenendo conto del personale assumibile. Quindi il salario accessorio diventa insensibile alla fluttuazione del personale, mentre sembra rimanere legato alla qualità e quantità dei servizi resi. La norma, al comma 3, evidenzia infatti che le regioni e gli enti locali possono integrare le risorse variabili del fondo per il trattamento accessorio in conseguenza all’incremento quali-quantitativo dei servizi, ma premette che deve essere garantito il limite complessivo del fondo stesso. In altre parole, stante l’incomprimibilità della parte stabile, non si comprende la portata della disposizione.
Una norma di salvaguardia è prevista per gli enti che, nel 2015, non hanno rispettato i vincoli di finanza pubblica e che, di conseguenza, nel 2016 non hanno potuto prevedere la parte variabile del fondo. Per queste amministrazioni, il riferimento si sposta dal 2016 al 2015, ma il limite di quest’ultima annualità deve essere ridotto in misura proporzionale al personale in servizio nel 2016. Anche se l’intento del legislatore è “nobile”, sicuramente si aprirà una storia infinita per precisare cosa si intenda per «personale in servizio», in quanto in passato il riferimento era ai dipendenti cessati.
Per quanto riguarda l’ambito temporale di riferimento, la disposizione si applica già al salario accessorio previsto per il 2017 e non prevede una scadenza, ma la sua validità è connessa al processo di armonizzazione dei trattamenti economici dei dipendenti della Pa. Considerato che l’operazione non si presenta di facile, il rischio tutt’altro che ipotetico è che il blocco si applichi sine die.
Tutto ciò dovrebbe assicurare, secondo la riforma Madia, la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e l’invarianza della spesa. Se il rapporto fra quest’ultima variabile e il blocco del fondo risulta ben chiaro, non si comprende come limitare il salario accessorio possa avere conseguenze positive sugli altri obiettivi. (Tiziano Grandelli e Mirco Zamberlan – Il Sole 24 Ore)
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26 giugno 2017