Nel 2011 lo spread è entrato nella vita quotidiana di tutti attraverso i titoli di giornali e telegiornali; da allora l’Italia ha sperimentato tutte le formule politiche, dal centro-destra al centro-sinistra passando attraverso i tecnici, le “strane maggioranze” e le larghe intese, ha visto sfilare una teoria di commissari alla spesa pubblica e ha approvato in media un paio di manovre all’anno dominate dal mantra della spending review. Di questa storia ricca e tormentata, però, alla colonna delle uscite del bilancio pubblico non c’è traccia. O meglio: tagli e interventi etichettati come “anti-crisi” hanno colpito duro dalle parti degli investimenti, cioè da manuale la spesa “buona” perché produce ricchezza futura. Le spese correnti hanno invece continuato nel loro ritmo di crescita senza apparentemente interessarsi dei dibattiti sull’austerità che hanno incendiato il Paese. Nel 2016 questa spesa ha superato per la prima volta i 700 miliardi di euro, attestandosi a quota 705,7 cioè una dozzina di miliardi sopra i livelli del 2015, ma gli anni precedenti seguono lo stesso copione e ogni 12 mesi ci si trova a consuntivo qualche miliardo in più rispetto al mese precedente. Tutto finto, quindi?
Attenzione. Il fenomeno è più complesso, e prima di perdersi nel derby fra austerity e politiche espansive con il corollario del braccio di ferro fra europeisti e accusatori dell’Unione matrigna, è bene guardare ai numeri. A offrirli sono i conti trimestrali dell’Istat, che con le tabelle relative al periodo ottobre-dicembre 2016 pubblicate da poco permette di chiudere la serie storica (per i conti annuali, che assestano le cifre e scendono più nel dettaglio delle singole voci di spesa, c’è invece ancora da aspettare).
I numeri complessivi
Le cifre principali, in effetti, non depongono a favore della capacità effettiva di riqualificare la spesa da parte dei governi multicolore che si sono succeduti negli ultimi sei anni. L’aumento di 40 miliardi registrato dalle spese correnti al netto degli interessi fra 2011 e 2016 (+5,9%) è stato finanziato integralmente da imprese e cittadini con le loro tasse, che infatti nello stesso periodo sono cresciute proprio di 40 miliardi (+5,4%). A livello complessivo, quindi, da un certo punto di vista i conti tornano, come mostra l’ultima riga del bilancio: il «saldo primario», cioè il risparmio che ogni anno la Pubblica amministrazione riesce ad accantonare prima di pagare gli interessi sul debito, si mantiene intorno ai 25 miliardi di euro, un punto e mezzo di Pil, ma l’accoppiata fra aumenti di gettito fiscale e freno agli investimenti non è la premessa migliore per rendere un po’ più robusta l’ancora anemica crescita italiana. Conviene, allora, affrontare il problema, andando un po’ più nel dettaglio.
La questione previdenza
A gonfiare la colonna delle uscite correnti è prima di tutto la voce dedicata a «previdenza e assistenza», e qui arrivano le prime sorprese. Per separare la previdenza dal resto del welfare bisogna spulciare le tabelle dei conti annuali, che come accennato sopra si fermano per ora al 2015, ma già lì si scopre che la spesa per le sole pensioni è cresciuta rispetto al 2011 del 5,8%, passando da 245 a 259,3 miliardi di euro. Secondo i documenti di finanza pubblica, poi, nel 2016 si è arrivati a 265 miliardi, con un altro incremento intorno al due e mezzo per cento. E la riforma Fornero?
Pensioni in crescita
L’intervento, ovviamente, c’è stato davvero, e ha alzato drasticamente l’età di uscita congelando per anni anche gli assegni a chi in pensione è già andato. Una riforma di questo tipo, però, dispiega i propri effetti nei tempi lunghi, e non può cancellare le gobbe demografiche dei primi anni. A salare il conto, poi, sono intervenute le «otto salvaguardie» per gli esodati, rimasti in fuori gioco proprio per il balzo in alto dei parametri previdenziali, con una platea che di anno in anno si è allargata fino a raggiungere le 172mila persone e i 16-17 miliardi di costo fra il 2012 e il 2023. Imponente in termini percentuali, ma più ridotto in valore assoluto, è l’aumento delle spese di «assistenza», passate da 24 a 36,5 miliardi (+52,2%) per finanziare ammortizzatori e prestazioni sociali il cui bisogno è esploso con la crisi economica.
Gli acquisti non frenano
A crescere, però, è stata anche la spesa per gli acquisti che le pubbliche amministrazioni effettuano per funzionare, dalla carta ai computer solo per fare gli esempi più ovvi. Proprio qui, però, si sono concentrate negli anni le promesse delle diverse spending review, che nonostante le opere di centralizzazione, i mercati elettronici tracciabili e le altre armi messe in campo dai diversi commissari, da Piero Giarda a Yoram Gutgeld passando per Carlo Cottarelli e Roberto Perotti, non hanno avuto gli effetti sperati. Certo, le uscite di scena polemiche di Cottarelli e Perotti indicano che i commissari non hanno avuto vita facile, e che l’escamotage di delegare i tagli a una figura esterna ai governi non ha funzionato più di tanto. Il premio di consolazione, allora, può essere cercato nel fatto che la crescita di queste uscite è stata “solo” del 4,5% in cinque anni, dunque con una dinamica molto meno vivace di quella che si sarebbe probabilmente incontrata senza le misure di questi anni.
Investimenti fermi
Speculare è il quadro offerto dalla spesa per gli investimenti, che la politica avrebbe voluto aumentare mentre il consuntivo mostra ancora in discesa. Il crollo degli investimenti fissi lordi è avvenuto fra 2011 e 2014, quando l’urgenza di far scendere la temperatura dei conti pubblici ha concentrato gli effetti collaterali delle medicine proprio sulla spesa in conto capitale: ma tra le difficoltà di avvio del Codice appalti e le inefficienze nella progettazione soprattutto negli enti territoriali, nemmeno gli anni successivi sono riusciti ad avviare la risalita, nonostante i cinque miliardi di “flessibilità” in più ottenuti a Bruxelles lo scorso anno proprio con la promessa di rilanciare gli investimenti.
Gli interessi sul debito
L’altro segno «meno» si incontra alla spesa per interessi, che si è fermata poco sopra i 66 miliardi nel 2016 mentre ne assorbiva 76 abbondanti nel 2011 e 83,5 nell’anno successivo. La ragione, però, non va cercata a Roma ma a Francoforte, dove lo scudo della Bce ha spento lo spread spingendo gli acquirenti a trattare i nostri titoli pubblici quasi come i più solidi bond del Nord Europa. L’uscita di scena del Quantitative easing, in calendario per il prossimo anno, lascerà scoperto un debito pubblico italiano che nel frattempo è arrivato a sfiorare i 2.218 miliardi di euro (132,6% del Pil a dicembre 2016) contro i 1.898 miliardi (120% del Pil) di sei anni fa.
IL PERSONALE. PER LE BUSTE PAGA 5,5 MILIARDI IN MENO
Cinque miliardi e mezzo dal 2011, ma addirittura otto miliardi abbondanti se si parte dal 2009. Nel bilancio pubblico una voce che ha ridotto drasticamente il proprio peso annuale c’è, ed è quella che riguarda le buste paga del personale. A tagliare i costi di anno in anno sono intervenuti diversi fattori, dal blocco del turn over che ha ridotto le forze in campo al congelamento di contratti nazionali e stipendi individuali che ha impedito gli aumenti a favore di chi è rimasto in ufficio. Oltre ai numeri, anche le date sono importanti: la spesa di personale sostenuta dalla pubblica amministrazione, centrale e locale, ha imboccato la via discendente nel 2008, e l’ha percorsa con ritmi sostanzialmente stabili di anno in anno fino al picco minimo del 2015. L’austerity del lavoro pubblico, anche per compensare una dinamica più allegra rispetto al settore privato vissuta negli anni precedenti, ha percorso infatti tutti i governi dal 2008 in poi, con la replica di misure avviate dal governo Berlusconi e prorogate da Monti, Letta e Renzi. La piccola gobba di uscite che si incontra nel 2016 nasce dal superamento del blocco delle buste paga individuali e dalla ripresa di assunzioni in alcune aree della Pa centrale, ma è solo l’antipasto di quello che si prepara per il prossimo anno. Il rinnovo contrattuale, che ha bisogno di altri 1,2 miliardi in manovra per un costo complessivo che fra centro e territorio arriverà a 5 miliardi l’anno a regime, si accompagna infatti con la ripresa del turn over, a partire dai Comuni, che invertiranno la tendenza.
Il Sole 24 Ore – 8 maggio 2017