di Stefano Simonetti, dal Sole 24 Ore sanità. La parola magica di questo primo scorcio del 2017 è “fabbisogno”. Nell’ambito della gestione del personale del Ssn questo termine ricorre frequentemente ed è ricordato soprattutto in relazione alla quantificazione delle risorse umane necessarie per una determinata organizzazione. In termini fattuali il concetto di fabbisogno ha ormai sostituito quello che in passato veniva definito pianta organica, dotazione organica e, infine, consistenza organica. La stessa legge Madia prevede un sostanziale superamento del concetto stesso di dotazione organica (articolo 17, lettera q, della legge 124/2015). Con il termine “fabbisogno” si delineano almeno tre scenari diversi. Il primo concerne il fabbisogno di personale sanitario da formare. Il secondo consiste in un atto di alta direzione – forse il più importante dopo il bilancio – che le aziende sanitarie devono adottare all’inizio dell’anno. Il terzo è quello attualmente oggetto di grande dibattito. Procediamo con ordine.
Riguardo al primo scenario va segnalato che da anni l’accesso alla formazione di base, per tutte le figure professionali sanitarie, è a numero programmato. Ciascuna Regione, infatti, formula annualmente al ministero della Salute le proposte per la determinazione del fabbisogno del personale sanitario, sul quale viene basata la programmazione degli accessi ai corsi di laurea e alle scuole di formazione specialistica da parte del ministero dell’Università. Per determinare in forma rigorosa e metodologicamente corretta il numero di accessi, calcolati generalmente per un triennio, necessari a coprire il fabbisogno dei servizi sanitari, viene solitamente avviata una rilevazione dati sia dell’organizzazione del lavoro, coinvolgendo le aziende sanitarie e la sanità privata, sia di quello formativo, con il coinvolgimento degli Atenei, in particolare delle facoltà di Medicina e chirurgia.
Come si vede si tratta di una programmazione altamente capillare e su basi scientifiche: peccato che di fatto serva a poco. La programmazione in tal senso è strumentale quasi esclusivamente alle esigenze delle università e rischia sempre di più di trasformarsi in una fucina di disoccupati o, nella migliore delle ipotesi, di precari. Questo perché le necessità assunzionali rilevate vengono regolarmente frustate dai continui vincoli finanziari posti alle assunzioni senza contare la ricorrente variabilità del età di pensionamento che, ovviamente, consente ben poche proiezioni.
Il secondo contesto è quello che viene normativamente prescritto dall’articolo 6 del Dlgs 165/2001, attualmente in fase di revisione per effetto della delega ex articolo 17 della legge 124/2015. Ogni amministrazione pubblica deve adottare il “piano triennale dei fabbisogni di personale” nel quale sono ricomprese tutte le tipologie di reclutamento, incluse le assunzioni obbligatorie e la mobilità. Questo atto è di fondamentale valenza strategica ma, nei fatti, rivela molte criticità. Sono numerose infatti le aziende sanitarie che nemmeno lo adottano, quelle che lo adottano e non lo realizzano e quelle che assumono comunque prima dell’ adozione formale.
Il terzo, infine, ha assunto una primaria importanza a seguito dell’entrata in vigore della legge 161/2014 che ha ripristinato le regole comunitarie in tema di orari e riposi del personale sanitario. Come è noto, i vincoli alla durata massima della settimana lavorativa e quelli sul riposo giornaliero hanno creato non poche difficoltà alle aziende sanitarie, quanto meno stando ai contenuti del documento di autodenuncia redatto ad Arezzo il 26 novembre 2015 dai direttori generali affiliati a Fiaso e Federsanità-Anci. La legge indicava due strade per fronteggiare le criticità: razionalizzare i servizi e ricercare «una più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili».
La prima indicazione ha comportato negli ultimi due anni una compulsiva operazione di accorpamento di aziende (e conseguentemente di servizi e strutture) da parte di tutte le Regioni. La seconda indicazione, invece, non ha prodotto significativi risultati in quanto l’obiettivo di efficientazione presuppone delle sinergie tra il livello nazionale e il livello locale rispetto alle quali è stato fatto nulla o pochissimo: basterebbe citare la questione delle inidoneità temporanee e alcuni istituti giuridici ad alto rischio di abuso, quali i permessi ex lege 104/1992 o la malattia. Già nel novembre 2015 si sarebbe potuto risolvere gran parte delle criticità se solo le parti avessero dimostrato la reale volontà di risolverle, magari facendo ciascuna un passo indietro. Invece si è scelta la strada dell’intransigenza o quella della fantasia al potere (come la legge regionale della Basilicata che porta il computo delle 48 ore su 12 mesi).
Con un anno di ritardo il legislatore prende atto del problema “fabbisogni” e con la legge 190/2015 (articolo 1, comma 541) delinea un percorso estremamente complesso per la verifica di tali fabbisogni di personale. Vennero coinvolti addirittura tre Tavoli tecnici per controllare i piani regionali e la soluzione finale era l’indizione di «concorsi straordinari» per sopperire alle rilevate necessità. È trascorso più di un anno e questi fantomatici «concorsi straordinari» sono stati protratti dal recente decreto Milleproroghe fino a tutto il 2018 – con buona pace delle criticità urgenti – e siamo proprio in questi giorni in pieno dibattito sulle metodologie di costruzione dei fabbisogni.
Si fronteggiano due scuole di pensiero. I Sindacati medici sono favorevoli al “modello Veneto” sul fabbisogno di personale medico e sanitario. Lo prevede la delibera della Giunta regionale n. 128 del 30 dicembre 2016, basata sull’individuazione di standard minimi di sicurezza, adeguati e specifici per ogni disciplina specialistica, correlati al ruolo di ciascun ospedale nella rete ospedaliera e ai bacini di utenza. Un modello in contrasto con quello definito dai Sindacati da “catena di montaggio” importato dall’industria manifatturiera e proposto dalla la Commissione mista Regioni-ministero della Salute (uno dei tre Tavoli tecnici di cui al comma 541), che parte dalla definizione a priori di tempi medi di esecuzione delle prestazioni sanitarie, calcolati in rapporto alla valutazione teorica della complessità con criteri solamente di indicatori economici. Siamo quindi in presenza di un gioco delle parti in cui tutti hanno ritenuto di aver assolto il proprio ruolo istituzionale. Così il ministro della Salute scarica le colpe sulle Regioni e queste le rinviano al Governo che taglia i finanziamenti. I sindacati sono critici nei confronti di tutti e chiedono continuamente adeguamenti organici e stabilizzazioni.
Dietro a tutti però incombe l’ombra del vero grande fratello della questione: il ministero dell’Economia attraverso il quale deve obbligatoriamente passare ogni vera decisione in materia. Proviamo a dare qualche numero. Il Servizio sanitario nazionale ha perso tra il 2014 e il 2015 ben 10.444 unità di cui 1.797 medici e 2.788 infermieri. Lo stanziamento previsto nella legge di bilancio per il 2017 per le assunzioni è di 75 milioni, che per i due profili indicati non copre neanche il 46% e il 30% – rispettivamente di infermieri e medici – del turn over del solo ultimo anno, altro che potenziamento per la questione orari. Inoltre le inidoneità fisiche per il personale sanitario raggiungono il 12 % degli addetti e i titolari dei permessi della legge 104 sono il 2,1 %. I numeri nella loro aridità non dicono granchè ma alcune riflessioni le stimolano. Ad esempio, che esistono delle variabili notevoli nel sistema rispetto alle quali non si fa quasi nulla. Nell’ambito delle verifiche effettuate dal famoso “Tavolo” c’è una nota del ministero della Salute del 31 marzo 2016 con la quale si chiede di indicare nelle ricognizioni il personale inidoneo e quello beneficiario dei permessi della legge 104 a riprova di come a livello istituzionale la questione “inidoneità” venga trattata in modo statico, alla stregua di un mero dato statistico, senza provare a innovare nulla o a capire le genesi del fenomeno e a prevenirle: insomma, l’evento viene subito e non gestito. Va ricordato in tal senso che almeno un paio di leggi prescrivono che compito delle Regioni è quello di perseguire una «più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili». È interessante allora tornare alla questione della efficientazione perché è un classico aspetto in cui si nascondono più verità. È il caso, per esempio, delle centinaia di figure sanitarie che non svolgono funzioni assistenziali o sanitarie. Intendiamoci, non si sta parlando di “imboscati”, perché la scelta fiduciaria di distrarre un medico, un biologo o un infermiere dall’assistenza diretta è sempre delle Direzioni aziendali e molte volte gli interessati sono anche di alto valore professionale.
Il problema è che la diffusa pratica che vede cardiologi, psichiatri, medici dell’organizzazione dei servizi di base, igienisti, psicologi, oncologi, patologi clinici, biologi, veterinari occuparsi di formazione, Urp, Cup, libera professione, controllo di gestione, comunicazione, flussi informativi, relazioni sindacali, accreditamento andando a ricoprire, senza alcuna selezione pubblica, anche incarichi di struttura complessa comporta due conseguenze. Dal un lato infatti agli interessati vengono erogate specifiche indennità (rapporto esclusivo, indennità di struttura complessa e, soprattutto, indennità di specificità medica) che la normativa riconosce solo a coloro che espletano funzioni di assistenza, diagnosi, cura e prevenzione e che invece tali soggetti non svolgono più. Dall’altro vengono lasciate scoperte le funzioni assistenziali per le quali gli stessi sono stati assunti e che, se svolte da altri sanitari, generano senz’altro un maggior costo. Un altro aspetto regolarmente taciuto quando si parla di criticità assistenziali è quello degli episodi di cronaca – ormai quotidiani – definiti “dei furbetti del cartellino”. Solo nell’ultima settimana di gennaio abbiamo avuto notizia che nella Asl di Viterbo ci sono 23 indagati tra cui medici e infermieri e nella Asp di Cosenza la Procura ha rilevato 725 diversi episodi di assenteismo, tutti documentati, con parecchi sanitari coinvolti. Ma la cosa sconvolgente è che da quando è stato adottato il decreto sul licenziamento degli assenteisti entro 30 giorni sembra quasi che invece di scattare la molla del deterrente sia scattata la sindrome degli ultimi giorni di Pompei. Dall’inizio del 2016 ci sono state indagini per “assenteismo” nelle Asl di Caserta, Avellino, Brindisi, Siracusa, Salerno, Lecce, Maddaloni, Comiso, Rossano. Ma allora, che Paese è quello in cui un ministro afferma che è vergognoso che un medico non dorma per 72 ore e contemporaneamente ci sono centinaia di medici che non fanno i medici e altrettanti che in pieno orario di lavoro vanno in palestra o alla sala giochi? Forse quando si parla di “fabbisogni” si dovrebbe avere la coerenza di affrontare in modo sistematico e completo tutti gli aspetti e le contingenze del fenomeno cominciando, ad esempio, a distinguere tra le discipline e gli ambiti lavorativi quali ospedale/territorio nonché a intervenire su tutte le variabili sopra ricordate.
Stefano Simonetti – Il Sole 24 Ore – 16 febbraio 2017