L’articolo 18 modello 1970, quello scritto nel vecchio Statuto dei lavoratori, rimarrà in vigore negli uffici pubblici anche dopo la nuova riforma che si dovrebbe avviare nelle prossime settimane, ma le violazioni formali o procedurali non potranno più cancellare la sanzione. Sanzione che, sempre in base alla riforma, si potrà applicare anche a chi viola in modo «grave e reiterato» i codici di comportamento dei dipendenti pubblici, si macchia di «scarso rendimento» dopo essere stato già sanzionato per lo stesso motivo nei due anni precedenti oppure va incontro a «reiterate valutazioni negative». Viaggia su questi binari la riscrittura del codice disciplinare dei 3,2 milioni di dipendenti di Stato ed enti territoriali prevista dal decreto sul pubblico impiego in arrivo per attuare la delega data al governo dalla legge Madia per riscrivere le regole del lavoro negli uffici della Pa.
Il mantenimento dell’articolo 18 vecchia maniera, sulla cui sopravvivenza nella Pa dopo le riforme della legge Fornero e del Jobs Act la Cassazione si è espressa con sentenze discordanti fra loro, era stata annunciata a più riprese dal Governo, con l’obiettivo dichiarato di evitare al settore pubblico di dover mettere mano ai bilanci per pagare gli indennizzi previsti oggi per il settore privato in caso di licenziamento illegittimo non discriminatorio. Nelle intenzioni del governo, però, la tutela deve concentrarsi sul piano sostanziale, evitando di “salvare” il dipendente infedele con lo scudo dei vizi procedurali.
Per ottenere questo obiettivo, il nuovo testo unico che la prossima settimana è atteso al confronto con enti territoriali e sindacati prima del via libera preliminare in consiglio dei ministri, mette in campo due novità. La prima cancella tutti gli obblighi procedurali aggiuntivi previsti da regolamenti, clausole contrattuali o «disposizioni interne comunque qualificate» rispetto al l’iter del procedimento disciplinare scritto nella legge, che peraltro viene accorciato da 120 a 90 giorni. Ma la violazione dei termini, e qui c’è la seconda novità al centro della discussione con i sindacati, non farebbe più decadere procedimento disciplinare e sanzione.
Questo non significa che il “processo” al dipendente pubblico accusato di violazioni tali da farlo uscire definitivamente dalla Pa possa durare in eterno. Per sopravvivere, procedura e sanzione non devono cozzare contro il diritto di difesa del diretto interessato, e devono secondo la bozza rispettare un «principio di tempestività» che andrà però declinato concretamente. Non solo: il nuovo codice disciplinare, se le regole scritte nella bozza arriveranno al traguardo, prevede una sorta di prova d’appello per l’amministrazione, che potrà riavviare il procedimento, facendo ripartire daccapo tutti i termini, entro 60 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che boccia il primo tentativo di licenziamento.
L’esigenza di blindare le procedure disciplinari per i casi più gravi che possono portare al licenziamento si spiega anche con un’altra ragione. La riforma punta infatti a estendere a tutti i casi di flagranza la procedura “sprint” (sospensione in 48 ore e licenziamento in 30 giorni) già prevista dal decreto antiassenteismo per chi viene pescato a timbrare l’entrata senza poi andare davvero in ufficio: un calendario ambizioso, che però non può produrre l’effetto collaterale di salvare i dipendenti delle amministrazioni che non riescono a rispettarlo.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 5 febbraio 2017