di Stefano Simonetti, dal Sole 24 Ore sanità. La crisi di Governo e l’avvio del “Gentiloni I” hanno portato conseguenze ovviamente anche sulla riapertura della stagione contrattuale. Due erano i livelli interessati alla vicenda: il Protocollo firmato il 30 novembre scorso tra il Governo e le tre Confederazioni sindacali e l’iter procedurale per la tornata contrattuale vera e propria. Il primo è un documento molto particolare, visto che è stato perfezionato a soli quattro giorni dal voto sul referendum e, soprattutto, per la sua valenza più politica che giuridica. Riguardo a quest’ultimo aspetto, infatti, va ricordato che la presenza delle sole Cgil, Cisl e Uil – contestatissima dai sindacati medici – conferisce all’accordo una natura del tutto particolare, quella appunto di accordo politico precontrattuale, come peraltro ha ricordato alla stampa un sindacalista a giustificazione della “privativa” della firma alle sole tre confederazioni.
Il secondo livello di cui si parlava prevede uno scenario molto articolato e piuttosto difforme per le tre componenti negoziali della sanità. Il comparto è quello che beneficerebbe maggiormente dell’accordo politico del 30 novembre, vista anche la stragrande maggioranza della componente di rappresentatività in mano alle tre confederazioni che hanno siglato l’accordo (70% del tavolo negoziale). In buona sostanza – e, ovviamente, a invarianza di condizioni politiche – la trattativa potrebbe iniziare a breve e concludersi in tempi rapidi. È, infatti, praticamente pronto l’Atto di indirizzo del Comitato di Settore, le risorse sembra che ci siano, la volontà dei sindacati è univoca.
Un percorso ricco di incognite per medici e dirigenza Pta
Di tutt’altra complessità appare la situazione dell’Area medica, veterinaria e della dirigenza sanitaria perché – come detto – i contenuti dell’accordo sono totalmente rigettati dai sindacati autonomi (che in quest’area sono all’80% della rappresentatività), in particolare per gli importi economici e per la logica da Robin Hood di cui è pervaso l’accordo stesso.
I due scioperi proclamati e annullati dai sindacati medici rappresentano molto bene il disagio esistente in quest’area stretta tra le promesse di un ministro – peraltro confermato – e i vincoli generali di contesto del tutto incompatibili con le promesse stesse. Per la terza componente – cioè la dirigenza professionale, tecnica e amministrativa – infine, le prospettive future sono estremamente intricate a causa della stretta connessione tra gli aspetti contrattuali e i contenuti della riforma della dirigenza di cui al decreto delegato bloccato prima della firma dall’intervento della Corte costituzionale. A quest’ultimo proposito è saltata (per ora?) l’inclusione nel ruolo regionale che era coerente con le scelte del Ccnq del 13 luglio scorso. È anche vero che le determinazioni sulle aree negoziali sono state liberamente assunte in sede pattizia e non dovrebbero essere condizionate da eventi esterni ma è altrettanto vero che quanto accaduto al decreto Madia non può essere certamente considerato una variabile indipendente rispetto agli scenari contrattuali. A riprova della difficile situazione di contesto in cui versa la dirigenza Pta va ricordato che essa per non è neanche abbozzato l’Atto di indirizzo alla Aran.
Una ulteriore variabile per tutti i tavoli negoziali è quella del decreto delegato sul riordino del pubblico impiego (articolo 17 della legge 124/2015) che dovrà essere rivisitato – a cominciare dalla stessa delega – alla luce della sentenza 251 della Corte. Molti hanno valutato questo decreto come la parte normativa del contratto collettivo, ma non sono affatto d’accordo con questa visione. La delega ex articolo 17 contiene ben 21 punti di delega molti dei quali non hanno alcuna rapporto con la contrattazione collettiva.
Il valore politico del Protocollo del 30 novembre
Tornando al Protocollo del 30 novembre vale la pena di segnalare alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto dal punto di vista generale va ripetuto che si tratta di un accordo di grande impatto politico ma di dubbia esigibilità giuridica, soprattutto nel caso in cui una delle parti firmatarie dovesse cambiare. Il Governo subentrante potrebbe addirittura disconoscere i contenuti e gli impegni assunti vuoi per la evidente finalità preelettorale vuoi per divergenze di merito sui contenuti. E non è forse un caso che, per la parte pubblica, accanto alla firma della ministra Madia troviamo quella del Sottosegretario Angelo Rughetti che di per sé stessa sarebbe ridondante se non fosse, a giudizio di qualcuno, una sorta di garanzia di continuità per gli impegni assunti.
Nel merito l’Accordo è costituito da quattro capitoli: Relazioni sindacali, Parte normativa, Parte economica e Monitoraggio dell’attuazione della riforma della Pa. Riguardo al primo si rileva una sostanziale vittoria sindacale in merito al «riequilibrio, a favore della contrattazione, del rapporto tra le fonti che disciplinano il rapporto di lavoro», in pratica una attenuazione della riforma Brunetta. A parte una vaga individuazione di «ulteriori ambiti di esercizio della partecipazione sindacale», la vera novità è la sterilizzazione dell’articolo 40, comma 3-ter del decreto 165/2001 introdotto da Brunetta nel 2009 per consentire alle amministrazioni pubbliche di superare situazioni di stallo delle trattative e procedere unilateralmente. Ebbene, la norma potrà essere applicata solo in presenza di quattro stringenti condizioni che, di fatto, ne renderanno molto impervia l’utilizzazione.
Sulla Parte normativa non vale la pena di soffermarsi sull’ennesimo impegno per nuovi sistemi di valutazione, visto che sono anni che il legislatore e i contratti collettivi straparlano sulla “valutazione”: la verità è che questo fondamentale passaggio del rapporto di lavoro non piace a nessuno, né ai soggetti passivi della valutazione né, tantomeno, ai soggetti valutatori. Le «misure contrattuali che incentivino più elevati tassi medi di presenza» fanno tanto pensare a obsoleti gettoni di presenza, l’unica risposta che in passato l’ordinamento riusciva a trovare per frenare l’assenteismo.
A quest’ultimo proposito suona beffarda la previsione di affrontare «con misure incisive e mirate anche situazioni di disaffezione e demotivazione, nonché contrastare fenomeni anomali di assenteismo». Su questo tema è davvero ipocrita che le controparti si “impegnano” visto che una ha adottato uno scandaloso decreto per licenziare gli assenteismi e l’altra, da sempre, non ha mai speso una parola o un gesto concreto per isolare i pochissimi soggetti devianti.
Di rilevante importanza e sicura novità sono i riferimenti al welfare contrattuale e alla fiscalità di vantaggio ma non sono certo tre righe generiche a consentire di capire come e cosa potrà comportare in pratica.
Il terzo capitolo concerne la Parte economica. Il contenuto più importante riguarda ovviamente gli incrementi contrattuali «comunque non inferiori a 85 € mensili medi» rispetto ai quali occorre chiarire alcuni aspetti. Innanzitutto la cifra indicata – che è media e non minima come volevano i sindacati – deve essere considerata esigibile a regime (cioè a fine 2018) e deve essere distribuita con l’intento di «ridurre la forbice retributiva». Basterebbe questa precisazione dell’accordo per concludere che a queste condizioni i sindacati medici non chiuderanno mai il contratto.
L’incremento indicato comporta una spesa complessiva di circa 3,5 mld di € che sono, più o meno, l’importo fissato nel comma 365 della legge di bilancio (€ 3.410 milioni). Tuttavia da quest’ultimo importo bisogna sottrarre le risorse per assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato nonché per gli interventi per le Forze dell’ordine e per la Forestale. Le cifre esatte saranno puntualizzate in un Dpcm da adottare entro marzo. Questo decreto, dunque, ripartirà l’intera somma a disposizione del Governo tra rinnovi contrattuali e altre finalità e in quella sede si potrà altresì capire se l’importo in questione ricomprende anche il Ssn.
Un’ultima considerazione va correttamente fatta sulla circostanza che dei miliardi investiti almeno uno rientrerà nelle casse dello Stato sotto forma di Irpef.
I confini nebulosi del lavoro flessibile
L’ultimo capitolo tratta un argomento del tutto generico ma è il più programmatico a livello di promesse. Va detto però che è anche quello ove sono contenute affermazioni ridondanti ed erronee. Mi riferisco alla «ridefinizione e riduzione delle forme di lavoro flessibile» e al rinnovo dei contratti precari. La prima questione contiene, secondo me, un ennesimo equivoco riguardo al lavoro flessibile e alla confusione – comprensibile da parte dei sindacati ma inaccettabile da parte del Governo – che viene fatta tra lavoro flessibile e lavoro atipico. Le «forme di lavoro flessibile» sono solo quattro e se si considera che il lavoro accessorio è praticamente inesistente nel pubblico e che il contratto formazione e lavoro poco attrattivo, non si capisce cosa c’è da ridurre.
Quello che costituisce il vero problema – quantomeno in Sanità – sono le Co.Co.Co. (che, in ogni caso, dal 1° gennaio 2017 dovrebbero sparire) e le partite Iva che però, se si continua a ricomprenderle nel lavoro flessibile, non saranno mai superate. Se il Legislatore intende davvero eliminare il precariato non “fisiologico”, sono solo due le cose da fare: limitare il ricorso al contratto a tempo determinato alla sola sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto e l’altra è vietare tout court il ricorso a contratti d’opera e Co.Co.Co., abrogando in pratica il sesto comma dell’articolo 7 del decreto 165.
L’altra problematica è invece una vera e propria promessa incosciente: neanche una legge ordinaria può prorogare oltre i trentasei mesi i contratti a tempo determinato perché lo vieta tassativamente la normativa europea e sono già numerose le sentenze di giudici italiani che condannano le amministrazioni al risarcimento dei danni subiti dai lavoratori precari, anche nel caso di «personale sanitario» per il quale dovrebbe valere la cosiddetta deroga Balduzzi.
E in tutto ciò siamo ormai a più di diciassette mesi di vacanza contrattuale. Dalla pubblicazione della sentenza n. 178 della Corte costituzionale qualcosa è stato fatto ma il contratto quadro sui comparti è stato condizionato e rallentato dalle strategie sindacali, il problema delle risorse disponibili ha più volte influenzato la reale partenza della trattativa, l’attesa dei decreti delegati della legga Madia ha fatto il resto. Fatto sta che la trattativa vera e propria non è ancora iniziata e nessuno oggi è in grado di prevedere quando potrà avvenire la sottoscrizione definitiva dei rinnovi contrattuali.
C’è da sperare che non venga battuto il record dei due Ccnl delle aree dirigenziali della Sanità del 3 novembre 2005 che furono firmati nel 47° mese di vacanza contrattuale sui 48 di complessiva vigenza. Anche allora incombeva una variabile esterna alla contrattazione (la deregulation della libera professione) ma firmare il rinnovo normativo del quadriennio 2002-2005 a 58 giorni dalla sua scadenza fu veramente paradossale; e non molti sanno che quel contratto collettivo, per una prassi consolidata, venne formalmente disdetto a fine ottobre prima ancora di essere stato firmato!
Il Sole 24 Ore sanità – 3 gennaio 2017