Caterina Pasolini, da Repubblica. Simona lavora in fabbrica e la bistecca per tutta la famiglia non se la può permettere. Fiorella, contabile in pensione, coltiva l‘orto, fa il pane in casa e al ristorante non ci va mai. Ina, moglie di un funzionario di banca, compra solo frutta di stagione e il pesce azzurro che costa meno. Hanno storie, età e finanze diverse ma una cosa in comune: tutte si sono ritrovate a fare i conti con la spesa, i soldi che non bastano. Costrette a ridurre carne e pesce, frutta e verdura, ma anche pasta sulle loro tavole. A lavorare di fantasia, caccia agli sconti e riutilizzo degli avanzi per garantire qualità del cibo in famiglia. Le loro storie sono il simbolo di un paese che cambia, dove il 12% delle famiglie ha tagliato la spesa alimentare, dove il pranzo che una volta univa gli italiani, ora torna a dividerli per classi sociali: è arrivato il food social gap, racconta un’indagine del Censis.
Perché a causa della crisi operai e pensionati hanno ridotto gli acquisti molto di più delle famiglie benestanti. Cosi pranzi e cene diventano metro del divario che si approfondisce sempre di più tra nuclei a basso e ad alto reddito. Lo confermano le statistiche: fotografano una crisi che da Nord a Sud ha cambiato i menù con gravi rischi per la salute.
Nell’ultimo anno, 16,6 milioni di italiani hanno ridotto il consumo di carne, 10,6 milioni quello di pesce, 9,8 milioni la pasta, 3,6 milioni la frutta, 3,5 milioni la verdura. E meno si guadagna più si risparmia nella scelta del cibo: negli ultimi 7 anni la spesa alimentare è diminuita in media del 12,2% ma nelle famiglie operaie è crollata del 19,4 e tra i disoccupati del 28,4%.
Se si guarda nel frigorifero la disparità sociale è confermata da ogni tipo di cibo: hanno tagliato il consumo di carne il 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% dei benestanti, sul pesce il 35,8% dei meno abbienti contro il 12,6% dei più ricchi. Per la verdura, il consumo familiare è diminuito del 15,9% tra chi ha basso reddito rispetto al 4,4% dei benestanti. Per la frutta, la riduzione tocca il 16,3% dei meno abbienti e solo il 2,6% delle famiglie più ricche. Senza contare che in media poi il 21% degli italiani ha comprato meno pasta.
«Questo significa che molti non possono permettersi i cibi base della dieta mediterranea. La tavola diventa così luogo di iniquità sociale che produrrà rilevanti costi sociali: sempre più gente malata o obesa», sottolinea Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis. Anche perché peggio si mangia più ci si ammala. Il taglio di proteine e vitamine aumenta il rischio di patologie, dicono gli esperti. Il tasso di obesità, racconta l’indagine, è più alto nelle regioni dove i redditi sono più bassi e la spesa alimentare in picchiata. Come al Sud dove negli ultimi sette anni la spesa è crollata del 16,6 % e il reddito in media è di un quarto inferiore alla media nazionale: qui obesi e sovrappeso sono il 49,3%, quasi metà della popolazione.
Attraverso la tavola si può leggere la storia del nostro paese dal boom economico, con il benessere che cancella malattie come pellagra e scorbuto dovute all’assenza di frutta e al nuovo millennio dove cresce la voglia di cibo genuino. Ora la crisi cambia lo scenario: non mangia carne l’8% delle famiglie benestanti e il 15 di quelle a basso reddito, sottolinea il Censis.
Lo conferma Simona Marchesi, operaia perugina che ha tagliato del 10% della spesa a cui dedicava 400 euro. «A casa carne poca, quella con i nervetti per i bambini che devono crescere, per noi adulti ho riscoperto i legumi come fonte di proteine. Ma io sono fortunata, ho l’orto per la verdura mentre di frutta ne compro poca e di stagione. Il pesce, solo azzurro o con le lische che costa meno come lo sgombro. Biscotti aboliti, faccio io una torta per la mattina. E comunque preferisco rinunciare ad un vestito che togliere qualità dai piatti».
Stessa filosofia, grandi abilità in cucina e inventiva a casa di Fiorella Villa, che abita col marito anche lui pensionato ad Orsenigo e spende 400 euro al mese per garantire cibo e dolcezze anche a figli e nipoti di passaggio. «Pane, pizza, dolci li faccio a casa, gli avanzi non esistono, tutto si può riciclare. Frutta solo di stagione, verdura dell’orto, carne sì ma non bistecche, piuttosto brasati. E poi bresaola, salmone, formaggi affumicati da mio marito». Benestante, Ina Marrella vive a Siena col marito funzionario di banca. Lei non ha tagliato la spesa ma ricicla, sceglie e impasta. «Il pesce? Solo azzurro, i figli vorrebbero i bastoncini ma sono cari cosi compro le sogliole e le faccio impanate. Riciclo gli avanzi: la pasta il giorno dopo diventa frittata, i formaggi vanno al forno, faccio conserve, marmellata, biscotti e torte ».
A rileggere le loro storie viene da dare ragione a Simona quando dice: «La crisi la pagano e la risolvono soprattutto le donne che fanno superlavoro a casa e fuori per far quadrare i conti. E miracoli in cucina».
L’INTERVISTA. “SI RINUNCIA A UNA BISTECCA NON ALLO SMARTPHONE NUOVO SONO CAMBIATE LE PRIORITÀ”
Giuseppe De Rita, presidente Censis “Le famiglie che decidono di risparmiare sulla spesa fanno una scelta non soltanto economica”
Maria Novella De Luca. «Ricordate gli anni Ottanta e la grande abbuffata di consumi di lusso? Anche il famoso “ceto medio” poteva comprare caviale e champagne, tanto per usare dei simboli. Molti, se non tutti, per la prima volta dalla fine della guerra avevano accesso ai cibi “alti”. Poi è arrivata la crisi, l’imposizione di una nuova sobrietà, e gli italiani sono stati costretti a fare delle scelte. E magari hanno sacrificato il carrello della spesa a favore di altri consumi…».
Parla più di scelte “obbligate” che di nuove povertà Giuseppe De Rita, presidente del Censis, nel commentare quanto si sono impoverite le tavole di chi non arriva alla quarta settimana.
De Rita stiamo diventando come gli americani? I poveri sono grassi e consumano junk food, i ricchi sono snelli e mangiano bio?
«No, nonostante la crisi siamo ben lontani da quegli opposti. Da noi, nonostante tutto, e a differenza degli States, la cultura del cibo buono resta trasversale ai ceti sociali. Se quindi una famiglia decide di risparmiare proprio sul mangiare vuole dire che ha fatto una scelta non soltanto economica».
I dati dicono, però, che sono state le famiglie operaie a tagliare, più di altri ceti, la carne, il pesce, addirittura la pasta.
«La crisi ha imposto una restrizione dei consumi, in particolare nelle fasce più basse. È anche vero, però, che dovendo rinunciare a qualcosa, si possa ritenere più importante avere un nuovo cellulare che la carne in tavola tutti i giorni».
La carne, appunto. Ancora un paradigma per misurare la nostra ricchezza?
«Sì, indubbiamente. Sia da un punto di vista simbolico che concreto. L’Italia ha iniziato a considerarsi un paese ricco quando negli anni Settanta la “fettina” è diventata un cibo quotidiano alla portata di tutti. Prima c’erano soltanto pollo e maiale, una volta alla settimana. È stato grazie alle proteine se le nuove generazioni sono diventate alte…».
Chi deve rinunciare alla “fettina” quindi fa parte della schiera dei nuovi poveri?
«Se deve eliminarla del tutto sì. Ma è una fascia di popolazione limitata per fortuna».
Dietro i tagli ai generi alimentari lei vede, dunque, una scala di priorità dove il cibo non è più al primo posto.
«Il termine che amo usare è “arbitraggio”. Noi siamo sempre più arbitri del nostro modo di spendere i soldi. Faccio un esempio: se il budget è ridotto è probabile che una famiglia preferisca andare al discount, o tagliare il consumo di pesce, ma non rinunciare allo sport per i figli, o alla settimana di vacanza. Pensate all’abbigliamento: oggi si spende sempre meno, è quasi tutto low cost».
C’è dunque un ripiego su cibi più scadenti?
«Sì, anche se per fortuna ci salva ancora la dieta mediterranea. Nelle case italiane si cucina. Però ripeto, noi qui parliamo di ceto medio impoverito, di famiglie operaie costrette a fare delle scelte, non di povertà vera. Insomma la fame è un’altra cosa, e io me la ricordo».
Lei è cresciuto durante la seconda guerra mondiale.
«La fame non ci faceva dormire. Ricordo notti insonni a guardare il soffitto con lo stomaco vuoto. E dopo la guerra la felicità di poter avere pane e pasta a volontà. Ci sono voluti anni perché la carne diventasse un alimento consueto. Ma anche la frutta. Per noi esisteva il cocomero e poco di più. Ne prendevi uno grande e ci mangiava tutta la famiglia».
Tagliare sul cibo buono ma non sull’ultimo smartphone.
«Per me è un errore, ma ognuno oggi è arbitro dei propri consumi».
Repubblica – 24 ottobre 2016