Il dibattito infinito sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego è dominato dalle cifre, ma finora sono rimasti in ombra i numeri più importanti. Sono riportati in tabella e indicano il peso che i «premi di produttività» hanno nelle buste paga del personale non dirigente nei diversi comparti. La quota più alta, 42 per cento, si registra negli enti pubblici non economici (Inps, Inail, Aci e così via), in regioni ed enti locali la produttività vale in media il 28 per cento mentre a Palazzo Chigi gli stipendi medi non solo sono più generosi, ma sono anche i più “fissi”: 49.242 euro lordi all’anno, e solo il 15 per cento collocato alla voce «produttività». Uno degli ostacoli più alti al riavvio delle trattative è in queste cifre, riportate dai censimenti periodici dell’Aran sugli stipendi del pubblico impiego, per una ragione semplice.
Oltre a ritoccare le ormai mitologiche «fasce di merito», quelle che impongono di dedicare il 50% dei premi al 25% del personale e così via, la riforma Brunetta impone di destinare alla produttività la «quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato».
Nella lettura più ovvia, significa che almeno il 50% più un euro dei fondi accessori dovrebbe andare a concentrarsi sui premi: ma se oggi questa parte vale per esempio il 28%, come accade in regioni ed enti locali, come si fa a raddoppiarne di fatto l’importanza senza prosciugare gli altri capitoli dell’accessorio, visto che un drastico aumento delle risorse complessive a disposizione può essere escluso a priori? E dal momento che una parte importante dei fondi accessori serve per finanziare voci “organizzative” come i turni o i festivi, è ipotizzabile azzerare queste vociper pagare i nuovi premi?
La questione è curiosamente rimasta in ombra nel dibattito pubblico, ma è ben presente agli addetti ai lavori perché è spinosissima. I primi tentativi per attenuarne le conseguenze puntano sull’interpretazione, e provano a leggere come relativa e non assoluta la maggioranza indicata nella «quota prevalente». In pratica, si tratterebbe di spezzettare il trattamento accessorio in tutte le sue voci, e attribuire ai premi una quota percentuale un pizzico più alta rispetto alle altre.
Il tentativo non è privo di ragioni, perché prova a sminare un problema oggi ingestibile, ma sembra difficile da conciliare con una regola insolitamente chiara per gli standard di casa nostra. Oltre alle fasce, insomma, il governo dovrà ripensare anche la «quota prevalente» se vuole veder crescere le proprie chance di trovare un punto d’incontro con i sindacati su un terreno contrattuale reso incandescente dai lunghi anni di congelamento.
Il cantiere, che punta al nuovo testo unico attuativo della delega Madia ma ha bisogno di un anticipo per far partire le trattative prima di giugno, è al lavoro ma il sentiero è stretto. La stessa battuta renziana rivolta giovedì ai sindaci riuniti a Bari all’assemblea nazionale dell’Anci, e chiamati dal premier a sfidare i dipendenti per superare «la filosofia Checco-Zaloniana», conferma che uno smantellamento della riforma Brunetta non è alle viste. In programma c’è semmai una sua “correzione”, ma c’è da scommettere che la polemica non sarà breve.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 17 ottobre 2016