di Gianni Trovati, dal Sole 24 Ore. In settimana si saprà quanto il governo intende stanziare per il rinnovo dei contratti pubblici. Il vero nodo per il settore è dato però dall’applicazione della riforma Brunetta, che impone di cancellare i «premi» di produttività per un quarto del personale. A rischio, senza correttivi, gli stipendi di 800mila dipendenti. A 15 mesi dalla sentenza della Corte costituzionale che ha imposto di riavviare la macchina dei contratti pubblici, questa è la settimana buona per conoscere la cifra che il governo ha intenzione di mettere sul tavolo, dopo lo stanziamento “simbolico” assegnato dall’ultima legge di Stabilità. Visto il «sentiero stretto» (copyright Pier Carlo Padoan) su cui si sta inerpicando la manovra, schiacciata tra una crescita incolore e via libera europei tutti da conquistare, non sarà una cifra da sogno: i calcoli della vigilia parlano di 500 milioni, che si aggiungono ai 300 accantonati dallo scorso anno e che sicuramente riaccenderanno la polemica fra governo e sindacati.
Ma anche se il dibattito pubblico attende la cifra come la risposta di un oracolo, il primo problema non è lì. A «normativa vigente», come dicono gli addetti ai lavori, il rinnovo dei contratti pubblici sembra una sciarada impossibile da risolvere. L’ostacolo principale si chiama “meritocrazia” o, per dire meglio, è la sua declinazione ultra-rigida scritta sette anni fa dalla riforma Brunetta, rimasta finora nei cassetti proprio perché la crisi finanziaria ha congelato il pubblico impiego.
La regola, che all’epoca ha prodotto discussioni infinite prima di essere dimenticata e che torna ora al centro della scena, è articolata in due mosse. La prima chiede di destinare al salario di produttività, cioè ai premi individuali, la «quota prevalente» (cioè più del 50%, a meno di interpretazioni capziose destinate a cadere di fronte a qualsiasi Corte dei conti) del salario accessorio, vale a dire delle somme che gli integrativi aggiungono al contratto nazionale. La seconda impone di dividere i dipendenti in tre fasce e di concentrare sul 25% del personale la metà dei premi, distribuire l’altra metà dei fondi fra il 50% degli organici e lasciare l’ultimo quarto dei dipendenti a secco di premi. La regola, spiegava allora la riforma, entra in campo al primo rinnovo contrattuale successivo alla sua approvazione, cioè ora, e a chi mastica qualcosa di pubblico impiego la conseguenza appare evidente: per 700-800 mila persone, cioè per quel 25% di lavoratori pubblici che dovrebbero rimanere senza premi, il rinnovo del contratto rischia di costare caro, perché l’azzeramento del bonus vale molto di più di qualsiasi aumento nazionale.
Non è un caso, quindi, se gli incontri informali con i sindacati, che nelle settimane scorse hanno riempito le agende dell’Aran (l’agenzia governativa che rappresenta lo Stato come datore di lavoro), si sono concentrati sulle possibilità di “sminare” la riforma Brunetta più che sulle cifre da mettere a bilancio.
Politicamente, la questione è delicata. Lo stesso governo ha intenzione di rimettere mano alle griglie rigide della Brunetta e di tornare a dare un peso alle “relazioni industriali” anche sull’onda del rilancio della concertazione sperimentato con le pensioni. L’obiettivo è di riportare una serie di materie dalla legge ai contratti, proprio per rilanciare gli strumenti integrativi come accade nel privato, ma il rebus resta complicato.
La sede naturale per riscrivere le regole è il testo unico del pubblico impiego, che però arriverà al traguardo non prima di giugno e quindi fuori tempo massimo per far partire almeno la discussione sui contratti, e quindi si studia la possibilità tecnica di anticiparne qualche contenuto nella legge di bilancio. Ma nel merito la questione è ancora più complicata. Cancellare del tutto i princìpi che hanno ispirato le tre fasce di Brunetta non si può, perché significherebbe ridare legittimità ai premi “a pioggia” che fanno a pugni con gli obiettivi ufficiali del governo messi nero su bianco dalla delega Madia. Nelle bozze preparate finora in vista del nuovo testo unico del pubblico impiego è confermata solo una parte del meccanismo scritto nel 2009, quella che riserva il 50% dei premi al 25% del personale considerato più brillante, si prevede che i contratti possano allargare di un altro 10% la platea dei “migliori”, ma non si dice nulla sull’esigenza di escludere dai bonus una fascia di personale. La stessa nota di aggiornamento al Def che sarà votata mercoledì da Camera e Senato spiega che il rinnovo dei contratti pubblici avrà «l’obiettivo di valorizzare il merito e favorire l’innalzamento della produttività»: tutto sta a trovare come raggiungerlo.
Sui numeri, invece, un piccolo aiuto al governo arriva dall’inflazione fredda, che trascina al ribasso anche l’indice (quello «armonizzato» dei prezzi al consumo) su cui si calcolano i costi dei rinnovi. L’inflazione vicina allo zero, però, frena anche la dinamica del Pil e le possibilità di limare il debito pubblico, rendendo ancora più complicato il confronto con con la Ue sull’assetto definitivo dei conti italiani. Anche per i dipendenti pubblici, quindi, un pezzo della partita si gioca a Bruxelles.
Gianni Trovati Il Sole 24 Ore – 10 ottobre 2016