Fino al 23% di ricchezza pensionistica in meno per chi lavora (calcolando cioè il totale delle rendite che si percepiranno in base alle statistiche sulla vita media); il 4% per chi invece fosse disoccupato. Questi sarebbero gli effetti dell’Ape, l’anticipo pensionistico attualmente allo studio da parte del governo, rivolto a tutti i lavoratori che tra il 2017 ed il 2018 compiranno almeno 63 anni di età con 20 anni di contribuzione. Se si rapportano le cifre al mese, un lavoratore con una rendita netta di 1.500 euro deve mettere in preventivo una riduzione che va da 177 a 350 euro. Quella allo studio non è una riforma vera e propria, ma una misura sperimentale di due anni resa possibile dal coinvolgimento del sistema bancario: il pensionato riceve un prestito finanziato dalle banche durante gli anni dell’anticipo, che verrà restituito nell’arco di 20 anni con delle trattenute sull’assegno pensionistico. Tutto verrà gestito dall’Inps e il pensionato non rischierà nulla — case, auto, altri beni — né per sé né per i propri eredi.
Poiché a garanzia dell’operazione ci sarà una copertura assicurativa a favore della banca in caso di prematura scomparsa.
La flessibilità in uscita rispetto alle rigidità delle Monti-Fornero, da più parti invocata, sarà dunque rappresentata dall’Ape, quel marchingegno da inserire nella prossima legge di Bilancio per consentire ai nati tra il 1951 e il 1954 di andare in pensione al massimo con tre anni di anticipo rispetto all’età di vecchiaia, attraverso l’erogazione di un prestito rimborsabile tramite il circuito bancario. Il lavoratore si ritira con un anticipo che al massimo può essere di 3 anni rispetto all’età di vecchiaia (66 anni e 7 mesi gli uomini e 65 anni e 7 mesi le donne). Percepisce un trattamento (l’Ape, appunto) che, di fatto, rappresenta un anticipazione della sua pensione e che verrà poi restituito (spalmato su un piano di ammortamento di 20 anni) nel momento in cui esso viene maturato, con una decurtazione dell’assegno previdenziale entro un limite massimo del 15%, accompagnato da agevolazioni fiscali per i redditi più bassi.
In particolare, il taglio sarà molto più basso per alcune categorie in difficoltà. Quella che i tecnici hanno ribattezzato «Ape social» intende infatti tutelare i disoccupati, gli invalidi e le persone che svolgono attività «gravose» (si parla di operai dell’edilizia, infermieri, macchinisti dei treni e gli autisti di bus e tram). Per loro la penalizzazione non dovrebbe mai superare il 3% l’anno, sempre considerando l’assegno lordo.
A quanto trapela, non ci dovrebbero essere penalizzazioni per chi percepirà un assegno fino a 1.500 euro lordi al mese. Il taglio arriverebbe all’1% l’anno per chi prende 2 mila euro. E salirebbe al 3% per gli assegni da 3 mila euro al mese lordi. Cifre e soglie che alla fine possono cambiare, a seconda di quanto il governo vorrà investire su questo capitolo, anche tenendo conto degli altri interventi ipotizzati (allargamento della platea degli aventi diritto, quattordicesima mensilità, ricongiunzioni gratuite).
Gli effetti
Le simulazioni della tabella consentono di comprendere perché l’Ape comporti forti penalizzazioni sull’assegno pensionistico: i motivi sono 5. Innanzitutto, per i soli lavoratori in attività, andare in pensione prima significa versare meno contributi, e dunque avere una pensione più bassa. Per tutti, inoccupati compresi, lasciare prima del tempo significa avere una rendita inferiore perché il calcolo dell’assegno pensionistico nel sistema contributivo si basa anche sulla speranza di vita: più si è giovani, maggiore sarà il numero di anni trascorsi in pensione, minore sarà l’importo dell’assegno, perché i contributi versati devono durare per più anni. Nelle simulazioni questi primi due effetti comporterebbero per un lavoratore del 1953 un calo dell’assegno negli anni del prestito da 1.500 a 1.358 euro netti mensili (quasi 150); per un inoccupato invece l’impatto sarebbe inferiore, con un calo da 1.000 a 974.
Una volta maturato il normale requisito di vecchiaia le pensioni verrebbero abbassate ulteriormente per altre tre componenti: il rimborso del capitale prestato, il pagamento degli interessi sul prestito ed il costo della copertura assicurativa. Per il lavoratore del 1953 significherebbe un’ulteriore riduzione di 308 euro (da 1.358 a 1.050), mentre per l’inoccupato di soli 142 (da 974 a 832), in quanto gli interessi passivi e la polizza assicurativa sono stati ipotizzati a carico dello Stato. Il costo complessivo di un Ape di 35 mesi per il lavoratore occupato, sommando tutte le pensioni che verrebbero percepite fino a vita media, sarebbe di circa 63.000, il 17% in meno rispetto a chi attendesse i 66 anni e 11 mesi del 2019. Per l’inoccupato, grazie all’intervento dello Stato, la penalizzazione complessiva nell’arco di quasi 20 anni sarebbe decisamente inferiore, pari a circa 7.400 euro, il 3% in meno.
La convenienza economica dell’Ape per il lavoratore è dunque strettamente legata ai bonus ed agli sgravi che lo Stato potrà mettere in campo; ma anche ad importanti fattori quali il tasso di interesse applicato al prestito, il costo della copertura assicurativa e l’eventuale blocco dei coefficienti di trasformazione. Sulla scelta, però, peseranno anche ragioni personali: composizione del nucleo familiare (con figli giovani percepire meno soldi ogni mese può creare problemi), prospettive lavorative e del settore in cui opera.
Corriere Economia – 19 settembre 2016