Varato ieri in Cdm il decreto che cambia le regole per i dirigenti pubblici. Istituiti ruoli unici a cui si accede per concorso e da cui Stato, Regioni, enti locali e authority sceglieranno i propri dirigenti con selezioni pubbliche, per quattro anni rinnovabili una volta in caso di valutazione positiva. Chi non ottiene incarichi avrà solo la retribuzione di base e sarà fuori ruolo se non partecipa ad un numero minimo di selezioni o resta senza incarico per sei anni. Ai dirigenti di prima fascia è stato riservato il 30% dei posti nei bandi emessi con le nuove regole. Novità importanti anche nella valutazione per i premi di risultato. Ma le norme non riguarderanno la dirgenza medica, veterinaria e sanitaria degli Enti del Ssn. Le misure varranno invece per la dirigenza amministrativa, professionale e tecnica del Servizio sanitario nazionale. Dalla legge Madia 1 miliardo l’anno di risparmi. Incarichi a tempo, deroghe parziali in avvio per i dirigenti di prima fascia e valutazione più puntuale e più pesante sullo stipendio finale. Il testo
Dopo una gestazione complicata è arrivato ieri al primo via libera, al fotofinish rispetto alla scadenza di questa parte della delega sulla Pa, il decreto con la riforma della dirigenza pubblica. «Un nuovo modello di dirigenza pubblica, che insiste sul premio di risultato anziché sulla posizione», ha sottolineato il premier Matteo Renzi al termine del Consiglio dei ministri.
Nella nuova architettura disegnata dal decreto i dirigenti pubblici, e gli aspiranti tali dopo aver superato un corso o un corso concorso annuale, saranno inquadrati nei ruoli unici, dedicati a Stato, regioni, enti locali e autorità indipendenti. Le amministrazioni sceglieranno i loro dirigenti da questi ruoli, con selezioni pubbliche, per incarichi quadriennali, rinnovabili una volta sola se il dirigente in questione ha ottenuto una valutazione positiva nello svolgimento del proprio compito. Per chi non ottiene incarichi è invece prospettato un parcheggio, che darà diritto alla sola retribuzione di base (senza quindi il trattamento accessorio, che vale dal 40 al 70% dello stipendio a seconda dei casi) e che può portare addirittura all’uscita dal ruolo se il dirigente in stand by non partecipa a un numero minimo di selezioni oppure rimane senza incarico per sei anni. Per evitare di uscire dalla Pubblica amministrazione, il dirigente potrà però rinunciare alle proprie stelline e farsi inquadrare nel ruolo di funzionario.
Oltre a cancellare le quote variabili della busta paga, il parcheggio di chi è privo di incarichi limerà nel tempo anche lo stipendio base, che sarà tagliato del 10% per ogni anno nel quale il dirigente resta privo di incarico.
A frenare il decollo del decreto è stata la levata di scudi dei dirigenti di prima fascia, e in particolare dei direttori generali di alcuni ministeri, ostili all’idea di partecipare, a partire dai prossimi incarichi, a un “mercato” che li metterebbe alla pari di tutti gli altri aspiranti, perché nei ruoli unici non sono più presenti le due fasce in cui oggi è articolata la dirigenza statale (non quella di regioni ed enti locali). Per loro, dopo un complicato lavorio tecnico che però non sembra aver più di tanto migliorato l’accoglienza della riforma, il testo esaminato ieri dal Consiglio dei ministri prevede una corsia preferenziale parziale (come anticipato nei giorni scorsi su questo giornale). La versione definitiva di questo meccanismo prevede che le amministrazioni, quando metteranno a bando gli incarichi secondo il nuovo regime, dovranno riservare almeno il 30% dei posti a chi ha già ricoperto nell’amministrazione un ruolo di prima fascia. L’altro 70% dovrà invece partecipare ai bandi senza riserva del posto, ma potrà comunque contare sul proprio curriculum per spuntarla nella selezione.
L’altra parola chiave del decreto è quella della “valutazione”, a cui il testo esaminato ieri dal Consiglio dei ministri dedica ampio spazio. Fissata nel provvedimento una griglia dettagliata con i vari aspetti dell’attività dirigenziale che saranno sottoposti a valutazione, e che dovranno far parte del programma dell’incarico concordato all’inizio con i vertici dell’amministrazione, il decreto prevede che la valutazione ottenuta di anno in anno determini almeno il 30% della busta paga del dirigente; nel caso dei dirigenti generali, il peso della valutazione dovrà salire al 40 per cento. In questo modo, si prova a superare il difetto di fondo dei meccanismi di valutazione attuali, che spesso si basano su obiettivi generici, talvolta fissati addirittura a fine periodo, e che finiscono per spalmare la retribuzione di risultato in parti uguali fra tutti trasformandola in una quota di fatto fissa dello stipendio.
Ottenuto il primo via libera in Consiglio dei ministri, ora la riforma arriva in Parlamento, dove le resistenze di tanta parte degli attuali dirigenti pubblici torneranno con ogni probabilità a farsi sentire pesantemente. L’approdo in Gazzetta Ufficiale è comunque previsto per novembre, dopo di che ci saranno due mesi di tempo per creare le commissioni chiamate a gestire i ruoli unici e sei mesi durante i quali le commissioni dovranno fissare le regole procedurali per le selezioni.
L’avvio vero e proprio del nuovo sistema, quindi, è da mettere in calendario per il settembre dell’anno prossimo, sempre che la riforma arrivi davvero alla prova sul campo senza essere azzoppata prima dai suoi tanti oppositori interni alla Pubblica amministrazione.
36mila i dirigenti dello Stato
Questo è il numero massimo degli interessati alla riforma (secondo altri calcoli sarebbero in numero minore, fino a trentaduemila). Si tratta di una categoria che dovrà cambiare modo di vivere e di lavorare: ci sarà una specie di mercato unico degli incarichi, con paletti per la durata di ciascun mandato e uno stretto legame fra il raggiungimento degli obiettivi e il livello degli stipendi. Inoltre dovrebbe diventare effettiva l’ipotesi (già promessa in passato ma finora mai realizzata, se non in casi eccezionali) della licenziabilità dei dirigenti incapaci.
30% quelli coperti da salvaguardia
Sopravviveranno alcune garanzie ma non per tutti: solo una quota, il trenta per cento dell’attuale dirigenza di prima fascia (160 persone) godrà di salvaguardie allo scoccare delle nuove regole sul ruolo unico. Una volta scaduti gli incarichi attuali, il 70% dei direttori generali dovrebbe passare per nuove selezioni, senza automatismo. Quindi la maggior parte dei dirigenti non potrà occupare fino a quando vuole gli uffici in cui si trova a operare, e non potrà farlo con le stesse mansioni, né tantomeno godere di scatti automatici. Questa almeno la promessa
40% la retribuzione legata ai risultati
Una fetta consistente dello stipendio dei dirigenti pubblici sarà condizionata al raggiungimento degli obiettivi. Il trattamento accessorio collegato ai risultati dovrà costituire almeno il 30% della retribuzione complessiva e la quota non potrà essere inferiore al 40% nel caso dei dirigenti generali. Attualmente, invece, la parte variabile corrisponde al 20% del totale. D’altra parte in molti casi clamorosi che sono stati denunciati c’è stata un’estrema generosità nel riconoscere a tutti il raggiungimento degli obiettivi. Anche questo dovrà cambiare.
12 mesi tempo massimo senza incarico
I dirigenti pubblici privi di incarico, ad esempio perché le loro mansioni non sono più utili, potranno restare in quella condizione per un solo anno, dopo di che scatterà il taglio dello stipendio o addirittura a decadenza, cioè la licenziabilità. In particolare, i dirigenti a cui è stato revocato l’incarico per il mancato raggiungimento degli obiettivi avranno dodici mesi per trovarsi un nuovo ruolo utile, altrimenti saranno fuori. Nelle altre situazioni, chi è rimasto privo di incarico non rischierà il licenziamento ma prenderà lo stipendio pieno solo per i primi dodici mesi.
Tratto dal Sole 24 Ore – 26 agosto 2016