Dopo 5 cinque mesi di iter legislativo il decreto delegato sul licenziamento degli assenteisti è stato approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 16 giugno, promulgato dal Presidente della Repubblica e infine pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 28 giugno. Il testo finale ha via via acquisito il parere dei sindacati (4 febbraio), quello della Conferenza unificata (3 marzo) e quello del Consiglio di Stato (16 marzo). L’ultimo passaggio è stato il parere delle Commissioni unificate di Camera e Senato dell’8 giugno che, peraltro, il 16 maggio avevano anche effettuato una audizione della Corte dei Conti. Da segnalare che il parere del Consiglio di Stato è rilasciato da una Commissione speciale, presieduta da Franco Frattini e appositamente costituita per la fase consultiva su tutti i decreti delegati ex lege 124/2015. Il parere è molto dettagliato (consta di 14 pagine) ma se si considera che quello relativo allo schema di decreto sull’elenco dei direttori generali è di 62 pagine bisogna riconoscere ai Consiglieri di Stato, in questo caso, il dono della sintesi.
Un aspetto che da sempre ha differenziato il lavoro pubblico da quello privato è senz’altro quello dell’assenteismo e degli strumenti a disposizione dei datori di lavoro per prevenirlo e reprimerlo. Sono decenni che gli addetti ai lavori studiano la questione evidenziandone gli aspetti giuridici e quelli sociologici ad essa sottesi. Non è certamente servita a nulla la contrattualizzazione del pubblico impiego del 1993 e l’aver portato il rapporto di lavoro pubblico sotto la fonte normativa del codice civile. È inutile tentare di omologare ciò che nasce diverso per una evidente differenziazione: la natura giuridica del datore di lavoro. Mentre l’imprenditore privato non può permettersi che suoi dipendenti non lavorino a fronte dello stipendio che eroga loro, il dirigente o l’amministratore pubblico non percepiscono questo danno perché a loro personalmente non causa alcuna conseguenza.
E le norme che colpiscono “omissioni, ritardi e valutazioni irragionevoli o infondate” da parte del dirigente (art. 55-sexies, comma 3) sono incomplete perché non prevedono, a loro volta, chi dovrebbe applicarle al dirigente ignavo o inerte. Deve insomma essere definita bene la filiera dei controlli e delle responsabilità alla luce del classico ma sempre attuale principio del Quis custodiet ipsos custodes?. Un’altra grande distinzione tra pubblico e privato è costituita dai carichi di lavoro. Nelle pubbliche amministrazioni dove proliferano i fenomeni di assenteismo di cui si occupano i media, è fin troppo facile affermare che i dipendenti che firmano ed escono o che fanno timbrare al collega non hanno granché da fare sul posto di lavoro e, soprattutto, non hanno qualcuno cui devono rispondere seriamente della loro prestazione lavorativa. Tale situazione è impensabile nel privato – tutti i settori, senza distinzioni – dove i carichi di lavoro e il rendimento del singolo lavoratore hanno un approccio scientifico di tempi e metodi. Sul fenomeno assenteismo basterà ricordare che diversa è la penalizzazione economica in caso di malattia, diverso è (o, meglio, era) il regime delle visite di controllo, diverso è il regime sanzionaiorio per gli illeciti (nel pubblico abbiamo norme speciali “severissime”, nel privato la normativa ordinaria di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori).
Già la legge delega n. 15 del 2009 prevedeva all’art. 7 uno specifico punto di delega che recitava “al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici contrastando i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”. È noto che il successivo decreto legislativo 150/2009 con l’art. 55 quater ha introdotto nuove norme ritenute severe e rigorose tra le quali spicca il pacchetto di ben sette fattispecie di licenziamento – dallo stesso Brunetta definito “catalogo”, comprensivo anche di un licenziamento specifico per insufficiente rendimento, del tutto sconosciuto nel lavoro privato.
Tutto ciò però non è stato evidentemente sufficiente perché il fenomeno in questione – una vera patologia del sistema – è forse addirittura aumentato. Sterile e fuori dal presente contesto appare la diatriba tra chi sostiene che le norme vanno riformulale e chi, al contrario, afferma che le norme esistono ma che, per molteplici ragioni, non vengono applicate. In ogni caso nella legge delega n. 124 del 2015 viene fissato ancora una volta un intervento sulla materia (‘art. 17) che dovrebbe portare ad “accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”, unitamente al passaggio delle visite fiscali all’Inps, previsto dalla lettera I) del medesimo art. 17.
Tecnicamente il decreto costituisce – come detto – uno stralcio della delega di cui all’art. 17, comma 1. lettera s) della legge 124/2015. La decisione del Governo di anticipare questa delega rispetto alle altre 14 contenute nel medesimo art. 17 è evidentemente legata allo scalpore di recenti fatti di cronaca ultimo dei quali è quello dei dipendenti del comune di Sanremo, citato addirittura nella relazione illustrativa del decreto. La questione ha un interesse generale e non va sottovalutato che, aldilà del caso del comune di Sanremo o dei vigili urbani di Roma, moltissimi episodi di assenteismo sono segnalati nelle aziende sanitarie (solo dall’inizio dell’anno i casi di Caserta, Avellino, Brindisi, Siracusa, Salemo, Lecce, Maddaloni).
Il testo di gennaio era composto da due soli articoli mentre attualmente ne troviamo 3. Quello aggiunto riguarda l’applicabilità della nuova procedura agli illeciti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto. Sembra una previsione ridondante ma se si considera che in questi mesi molto spesso i media hanno “minacciato” il nuovo licenziamento ai protagonisti della cronaca, forse una tale precisazione, per quanto didascalica, non sembra inopportuna. Nelle premesse compare il “sentite” le organizzazioni sindacali, passaggio dimenticato nel testo di gennaio come, invece, prescrive l’art. 17 della legge delega Madia. A tale proposito anche la stessa formulazione originaria della delega non è corretta perché per le disposizioni legislative di tale genere la consultazione avviene tradizionalmente con le Confederazioni sindacali rappresentative e non con le Organizzazioni di categoria che sono, nel caso del pubblico impiego contrattualizzato, almeno una cinquantina. Passando ai contenuti sostanziali, le modifiche sono essenzialmente tre: la previsione di un assegno alimentare per i sospesi, la scansione della fase del contraddittorio con il preavviso e la possibilità di un rinvio, l’eliminazione del riferimento esplicito al reato di omissione d’atti di ufficio. Le modifiche sono state sollecitate dal Consiglio di Stato che aveva anche suggerito altri due interventi che però il Governo ha ritenuto di non accogliere (l’attenuazione della sanzione a carico del dirigente e i termini della risarcibilità del danno all’immagine).
Vediamo nel dettaglio le correzioni apportate. Nel testo iniziale il dipendente sospeso restava “senza stipendio” ma le osservazioni di tutti i soggetti coinvolti hanno suggerito di prevedere un assegno alimentare per una esigenza di ragionevolezza e proporzionalità della misura cautelare. Peraltro continua a mancare una previsione normativa sugli effetti della sospensione nel caso di successiva archiviazione del procedimento. La seconda modifica concerne le fasi della procedura vera e propria e se ne parlerà diffusamente più avanti. La terza, infine, consiste nella eliminazione della declaratoria del reato di omissione di atti di ufficio, sostituita dalla previsione di dare notizia all’Autorità giudiziaria per l’eventuale sussistenza di reati. In ordine al reato di cui all’art. 328 del cp ha prevalso la tesi del Consiglio di Stato che aveva visto nella norma un possibile eccesso di delega. Ma a parte tale giusta considerazione, in ogni caso, appare dubbio che se un dirigente non attiva un procedimento disciplinare – che è un atto gestionale di diritto comune – ciò possa costituire “un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblicao di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo”.
La prima eclatante criticità riguarda un aspetto che chi scrive aveva sottolinealo a gennaio. Se la ratio della delega è quella di accelerare il procedimento, allora fissarne la conclusione entro trenta giorni comporta una domanda preliminare e due importanti corollari. Ritengo che le intenzioni del legislatore fossero per la perentorietà, altrimenti non avrebbe senso il procedimento “speciale”. Riguardo ai corollari, il primo è che detti trenta giorni sono necessariamente comprensivi dei termini a difesa per l’audizione (almeno 20 giorni) e il secondo che si sarebbe dovuto inserire la regola che in tale fattispecie non può essere applicato il differimento per grave e oggettivo impedimento e che, di conseguenza, nel caso di impedimento il contraddittorio si forma esclusivamente tramite l’invio di memoria scritta.
Ebbene, nel testo definitivo troviamo il preavviso di 15 giorni e la possibilità di rinvio per non più di cinque giorni e una sola volta. L’intento è evidente: non poteva assolutamente essere eliminato il contraddittorio ma doveva essere contenuto nell’ambito degli annunciati famosi 30 giorni. Però non è cosi perché, a prescindere dai cinque giorni dovuti ad un rinvio “tattico”, nel nuovo comma leggiamo queste parole: “non determina la decadenza dell’azione disciplinare”. In buona sostanza, tutti i termini sono ordinatori meno quello a difesa, circostanza del tutto diversa rispetto al procedimento “normale” che deve terminare entro un termine maggiore (120 giorni) ma tale termine è perentorio.
Anche il dies a quo è diverso: nel procedimento generale decorre “dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione” mentre nel nuovo decreto dalla “ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell’addebito”: e tra i due eventi possono passare anche parecchi giorni. Di conseguenza, per superare una procedura che, comunque, era fissala in 120 giorni perentori se ne è creala una “speciale” che ipotizza 30 giorni ma se l’Upd (Ufficio procedimenti disciplinari) va oltre tale scadenza ciò “non determina la decadenza dell’azione disciplinare”.
Credo che il Governo con l’iniziale annuncio “licenziati in 30 giorni” si sia messo in un pasticcio giuridico che si è tentato di risolvere garantendo – ovviamente – il contraddittorio ma escludendo la perentorielà del termine finale. Non va dimenticato che la delega contenuta nell’ari. 17 della legge 124 parlava espressamente di “accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”: a me personalmente sembra che la certezza si aveva di più con il precedente procedimento. Un accenno è doveroso anche riguardo al differimento. E stato abbreviato (da venti a cinque giorni) e non sospende il decorso del termine mentre, come in precedenza, può essere concesso una volta sola. Però riguardo alle motivazioni da una declaratoria di “grave ed oggettivo impedimento” siamo passati a “grave, oggettivo e assoluto impedimento”: alla giurisprudenza il compito di riempire di contenuto tale catalogo degli aggettivi.
Altra delicata questione è quella che concerne le modalità di accertamento in quanto, accantonata la improbabile fattispecie della flagranza, tutto è affidato agli “strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze”. Questa parte della norma va coordinata con la recente modifica apportata all’alt. 4 dello Statuto dei lavoratori da parte dell’art. 23 del d.igs. 151/2015 con tutto quello che comporta il corretlo e legittimo utilizzo di telecamere e similari. In proposito esistono severe linee guida del Garante della Privacy e tutte le amministrazioni pubbliche dovranno tempestivamente adattare il loro ordinamento interno alle condizioni richieste dalla norma e dal Garante, soprattutto in tema di “adeguata informativa” che, unitamente al rispetto del Codice della Privacy, costituisce l’unica condizione di procedibilità per l’utilizzo dei dati raccolti “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”.
Un punto di delicatissima importanza riguarda le riprese effettuate da telecamere nascoste, come è dato da vedere continuamente nei telegiornali. Orbene, l’installazione delle telecamere di controllo può essere autorizzata soltanto dalla Procura della Repubblica e costituisce un mezzo di indagine per la ricerca dei profili di responsabilità penale. Come può il soggetto procedente avere la disponibilità entro 48 ore dall’evento delle registrazioni le quali – si immagina – siano coperte dal segreto istruttorio? Anche con tutte le possibili sinergie tra magistratura e amministrazioni si dubita che due soli giorni siano sufficienti per avere la prova certa perché questa occorre avere, non il mero sospetto – dell’illecito disciplinare. E pur vero che il decreto parla di “quarantotto ore dal momento in cui i suddetti soggetti ne sono venuti a conoscenza” e non dall’evento ma se ammettiamo tranquillamente che dal giorno del fatto a quello della reale conoscenza da parte del dirigente o dell’UPD possano trascorrere parecchi giorni, allora c’è da chiedersi perché si è adottato un decreto che istituisce un procedimento disciplinare speciale; bastava applicare bene e nei termini prescritti quello ordinario.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra, c’è da ritenere che la stragrande maggioranza dei vizi formali di queste nuove procedure di licenziamento consisteranno proprio nella irregolarità delle rilevazioni e del rispetto dei termini. Di conseguenza per evitare una gigantesca bolla giudiziaria e il forte rischio del reintegro dei licenziati – che per l’amministrazione sarebbe devastante – è quanto mai opportuno mettere perfettamente a regime la procedure prevedendo tutte le possibili accortezze formali.
In questa direzione è particolarmente utile declinare con esattezza le modalità di rilevazione dell’accesso e della presenza sul posto di lavoro. La sede ideale è il Codice di comportamento dell’amministrazione che, partendo dall’art. 11 del DPR 62/2013, ampli i dettagli del “comportamento in servizio”. In relazione al contenzioso e ai possibili effetti di risarcimento a carico dei dirigenti – sicura causa deterrente dell’azione disciplinare erano state annunciate apposite garanzie per il dirigente al fine di scongiurare che l’incubo del danno erariale in caso di reintegro del dipendente licenziato costituisca un ulteriore freno all’azione disciplinare. Ma nel testo del decreto non ce ne è traccia. Probabilmente è stato ritenuto che in questo decreto specifico trattare della responsabilità avrebbe costituito un eccesso di delega: se così fosse ci aspettiamo di vedere la questione trattata nel prossimo decreto ex lettera m) dell’art. 11.
Una proposta ragionevole potrebbe essere quella di esentare da responsabilità amministrativa i soggetti interessati in analogia al contenuto dell’ari. 66, comma 8 del d.igs. 165/2001 ovvero di circoscrivere la ipotesi di colpa grave (sul dolo, ovviamente, non si discute) alle cinque chiare fattispecie che la recente legge 18/2015 ha disciplinato in tema di responsabilità civile dei giudici.
Ulteriore criticità è quella dell’adozione della sospensione cautelare. Il decreto affida tale provvedimento a chi per primo lo viene a sapere tra il “responsabile della struttura di appartenenza” e l’Upd. La previsione normativa è tarata come sempre sul modello organizzativo ministeriale ma non è esportabile nelle aziende sanitarie laddove è impensabile che a sospendere il medico sia il suo primario. Questa fattispecie andrà, dunque, adattata all’organizzazione delle aziende sanitarie, verosimilmente mediante un atto regolamentare intemo. Qualche problema applicativo potrà anche derivare dal comma 3 ter in quanto, con l’esperienza sul campo, si può ipotizzare che la partita della esigibilità ed efficacia della nuova norma è tutta incentrata sulla contestazione perché uno dei modi tatticamente più utilizzati per eludere il procedimento disciplinare è proprio quello di non far realizzare l’avvenuto ricevimento formale della contestazione; e si può ben immaginare come in questa materia i “furbetti del cartellino” siano dei veri maestri.
Ma anche riguardo alle modalità della contestazione si rilevano altre difficoltà operative che potrebbero vanificare gli sforzi dell’amministrazione. L’art. 55-bis, comma 5 individua tre modalità di effettuazione della contestazione: tramite posta elettronica certificata, consegna a mano, raccomandata RR. Nel caso che ci occupa, visto che il dipendente è sospeso con “il medesimo provvedimento” con il quale si procede alla contestazione di addebito, le prime due modalità potrebbero essere impraticabili per tempistica e la terza, come è noto, è soggetta a notevoli rischi di inesigibilità. È vero che una qualche garanzia la si può trovare nell’art. 1335 ma forse occorrerà valutare bene se non sia il caso di ricorrere direttamente alla notifica tramite ufficiale giudiziario ovvero ad un incaricato del datore di lavoro che effettui la “consegna a mano” al domicilio del dipendente e possa anche essere assunto come teste per la prova dell’avvenuta consegna (o del rifiuto della stessa).
In conclusione, si ha la netta sensazione che questo decreto non risolverà il problema dell’assenteismo e genererà invece molto contenzioso. Tra l’altro l’intero decreto – e non soltanto alcuni passaggi, come sottolineato dal Consiglio di Slalo – non rispetta in pieno la delega della legge Madia per il semplice fatto che la delega si riferiva all’accelerazione dell’azione disciplinare (e non del solo licenziamento disciplinare) in termini generali mentre il decreto ha introdotto una procedura speciale per una determinata e diversa fattispecie, lasciando inalterato il procedimento pregresso per tutti gli altri illeciti. Sembra quasi che il provvedimento sia stato adottato più per rispondere ai fatti di cronaca che per risolvere realmente i problemi. La controprova che la prima preoccupazione del Governo sia stata quella di un ennesimo effetto-annuncio è in fondo rinvenibile nello stesso non accoglimento del suggerimento del Consiglio di Stato di sostituire l’espressione “rilevanza del fatto per i mezzi di informazione” ai fini della quantificazione del danno all’immagine. Detto questo, appare scontata l’affermazione che i comportamenti umani non si possono imporre o modificare per decreto. Le nonne giuridiche tuttavia devono servire a prevenire i comportamenti illeciti e a porre le condizioni di esigibilità degli interventi repressivi, rendendo estremamente penalizzante il comportamento deviante.
Ebbene in questo contesto il decreto di cui si parla dovrebbe poter fare di più, almeno sul piano formale, al fine di rispettare la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici onesti e di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione. Il rischio era di scivolare in una spirale di giustizialismo che non giova a nessuno e, per scongiurarlo, si è definito un procedimento che potrebbe essere paradossalmente più lungo e incerto del precedente.
Stefano Simonetti – Il Sole 24 Ore sanità – 5 luglio 2016