di Alberto Brambilla*, dal Corriere della Sera. In questo inizio di 2016, il tema delle pensioni è tornato alla ribalta con una serie di proposte formulate pressoché da tutte le forze politiche. Si va dalla eliminazione tout court della riforma Monti-Fornero, agli assegni per coloro che hanno più di 55 anni e sono senza lavoro, al reddito di cittadinanza anche per i cosiddetti «pensionati poveri», alla introduzione della quota 100 e a diverse forme di flessibilità in uscita e opzioni donna. A queste si aggiungono alcune improbabili elucubrazioni sul ricalcolo con il metodo contributivo, sul cumulo pensioni redditi da lavoro e sulle ormai consunte proposte sulle «pensioni d’oro». Ovviamente, come acutamente osservato in un recente articolo da Gianni Geroldi, tutto ciò continua a creare insicurezza (il contrario della serenità che un buon sistema di welfare avrebbe come obiettivo) con risvolti negativi su sviluppo e consumi, e anche l’ultima legge di Stabilità non aiuta.
Su questo importante aspetto del nostro vivere sociale, vorrei fare alcune brevi considerazioni che spesso paiono sfuggire a molti dei proponenti citati.
1) Molte delle proposte non tengono conto della situazione finanziaria e di bilancio del nostro Paese; si dovrebbe sapere che nel 2014 (ultimo anno di dati consolidati disponibili), su 826 miliardi di spesa statale totale oltre il 53% (438 miliardi) è stato speso per welfare (pensioni, sanità e assistenza). Quasi nulla per ricerca e sviluppo, l’unica modalità per garantire un futuro al Paese. Se passassero alcune delle proposte tipo il reddito di cittadinanza (700 € al mese) i costi aggiuntivi da reperire partirebbero dai 9 miliardi per una platea di un milioni di beneficiari; il doppio se fossero 2 milioni. Anche l’assegno ai disoccupati con più di 55 anni costerebbe molti miliardi e come per il reddito di cittadinanza sarebbe da dimostrare che queste misure possano essere utili alla crescita dei “doveri di cittadinanza” unico motore dei “diritti di cittadinanza”. Tralasciamo la improponibile proposta di portare tutte le pensioni a mille euro al mese perché oltre a “squassare” l’intero sistema previdenziale (costerebbe oltre 15 miliardi, premierebbe solo chi non ha mai versato contributi a scapito di chi invece a fatto il proprio dovere di cittadino pagando tasse e appunto contributi) e incentiverebbe l’evasione contributiva. Forse è meglio pensare seriamente al futuro del Paese piuttosto che usare le pensioni come strumento di campagna elettorale perenne.
2) Cancellare in toto la legge Fornero è sbagliato poiché contiene anche buone soluzioni e impossibile per gli ovvi riflessi negativi sia in Europa ma soprattutto sui mercati; e con un debito pubblico stratosferico come il nostro un incremento di un 1% dei tassi sui titoli di Stato costerebbe circa 20 miliardi. I proponenti dei punti 1 e 2 ci dovrebbero spiegare dove andare a reperire le risorse.
3) E’ altrettanto vero tuttavia che la citata riforma Fornero ha modificato uno dei pilastri della riforma Dini del 1995: la flessibilità in uscita, elemento cruciale di un sistema pensionistico. Ciò ha prodotto ulteriore instabilità e insicurezza tra lavoratori e pensionati oltre al fenomeno dei cosiddetti «esodati» per i quali entro il 2017 (ultimo anno per il fenomeno) occorrerebbe un’ultima sanatoria.
4) Ne deriva che di tutte le proposte sul tappeto il progetto presentato da Cesare Damiano è quello che risponde meglio alle necessità di sistema e a quelle dei lavoratori, senza incidere pesantemente sui conti pubblici. Infatti l’idea di reintrodurre la flessibilità in uscita, eliminata proprio dalla Fornero, ripristina la validità del metodo contributivo, stabilizza il sistema pensionistico reintroducendo certezze e serenità tra i lavoratori e chiude finalmente il ciclo ultra ventennale di riforme per il nostro Paese. Elimina altresì gli effetti negativi della opzione donna che taglia pesantemente e definitivamente la pensione delle donne di circa il 30% e quelli legati al ricalcolo contributivo della opzione totalizzazione. Il progetto è semplice e si applica progressivamente a partire dagli esodati, ai disoccupati di lungo periodo e ai lavoratori con difficoltà di reinserimento o a quelli con gravi problemi familiari per poi entrare a regime per tutti; la “forchetta” di uscita è tra i 63 e i 70 anni e con 35 anni di contribuzione (meglio se la contribuzione figurativa non eccede i 2 anni) con l’introduzione di correttivi attuariali per la parte retributiva mentre per quella contributiva si applicano i normali coefficienti di trasformazione. Per capirci un soggetto con 35 anni di contributi e 63 anni di età anagrafica avrebbe l’assegno pensionistico ridotto di circa il 10%; tale diminuzione si può ridurre se nel tempo dovessero venire accumulati altri contributi sociali (esempio con lavori utili alla collettività); per un soggetto con 63 anni di età e 41 di contribuzione non si avrebbero riduzioni. Verrebbe altresì eliminata l’indicizzazione della anzianità contributiva alla aspettativa di vita ripristinando i 41 anni massimo di contribuzione; si aprirebbe quindi un altro canale in uscita che risolverebbe il problema dei “precoci” cioè di quelli che hanno iniziato a lavorare da giovani. Che il 2016 sia l’anno della flessibilità e della parola “fine” alle riforme pensionistiche? Sarebbe auspicabile e bello se accadesse.
*Presidente Itinerari Previdenziali
Il Corriere della Sera – 30 gennaio 2016