di Pippo Sciscioli, dal Sole 24 Ore. Cambiano le modalità gestionali o l’etichetta ma sempre di pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande si tratta. Per questo, ai fini dello svolgimento, i soggetti interessati devono presentare la relativa Scia al Suap del Comune, essere in possesso della Dia sanitaria e dei requisiti morali e professionali, così come accade per i più comuni e diffusi bar, ristoranti e pizzerie. Stiamo parlando degli home restaurant, cioè ristoranti a casa, non espressamente oggetto di disciplina normativa, che hanno dato vita a una prassi che si va sempre più diffondendo nei grossi centri e che, di fatto, consente di poter esercitare un’attività di somministrazione in casa, erroneamente eludendo la disciplina sui pubblici esercizi di cui alla legge 287/1991 e all’articolo 64 del Dpr 59/2010 di recepimento della direttiva Bolkestein.
In molti casi, però, ciò accade senza il deposito al Suap della Scia e della relativa documentazione, come invece per bar e ristoranti, integrando un vero e proprio abuso sanzionabile dall’articolo 10 della legge 287/1991 con tanto di sanzione pecuniaria e chiusura dell’esercizio.
L’attività di home restaurant
Gli home restaurant consistono in attività di somministrazione che si caratterizzano per la preparazione di pranzi e cene presso il proprio domicilio privato in giorni dedicati e per poche persone (dunque trattate come ospiti personali), però paganti.
L’articolo 1 della legge 287/1991 stabilisce espressamente che «per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto, che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati», con una locuzione che in realtà abbraccia e include anche tali fattispecie. Infatti la fornitura di dette prestazioni in modo non occasionale, cioè non una tantum, comporta il pagamento di un corrispettivo e l’allestimento di un’attività economica organizzata (pubblicità, fissazione di giorni prestabiliti, dotazione di personale di cucina, arredi, eccetera) che concorrono a integrare la nozione di attività imprenditoriale ex articolo 2082 del Cc («È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi») decisiva ai fini della qualificazione di un pubblico esercizio.
Il parere del Mise
Sull’argomento si è espresso il ministero per lo Sviluppo economico a più riprese e da ultimo con il parere n. 50481 del 10 aprile scorso, affermando che «L’attività in discorso, ad avviso della scrivente, anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela…… Infatti, la fornitura di dette prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo e, quindi, anche con l’innovativa modalità, l’attività in discorso si esplica quale attività economica in senso proprio; di conseguenza, ad avviso della scrivente, non può considerarsi un’attività libera e pertanto non assoggettabile ad alcuna previsione normativa tra quelle applicabili ai soggetti che esercitano un’attività di somministrazione di alimenti e bevande». Va da sè, conseguentemente, che ai fini dello svolgimento effettivo dell’attività «previo possesso dei requisiti di onorabilità nonché professionali di cui all’articolo 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e s.m.i., detti soggetti sono tenuti a presentare la SCIA o a richiedere l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate».
Stesso discorso vale per quelle ipotesi in cui un soggetto, proprietario di una villa o dimora storica, prepari e somministri cibi e bevande nella propria cucina fornendo tale servizio solo su specifica richiesta e prenotazione da parte di un committente e quindi solo per gli eventuali invitati ma comunque paganti.
Già con parere n. 98416 del 12 giugno 2013, sempre il Mise chiariva che «l’attività non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande vera e propria in quanto i prodotti vengono preparati in loco e serviti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico attrezzata» e dunque esercitabile con gli stessi requisiti, limiti e condizioni di un ristorante.
Insomma, gli home restaurant rappresentano semplicemente una modalità di somministrazione di alimenti e bevande alternativa a quella classica dei bar, pizzerie, ristoranti, trattorie, birrerie, ma comunque rientrante a pieno titolo nella disciplina generale sui pubblici esercizi rappresentata dalla L.287/91 e dall’art.64 D.Lgs. 59/10 che impongono il titolo autorizzativo (Scia o autorizzazione se svolta in zone vincolate) e il possesso dei requisiti morali di cui ai commi 1, 2, 3, 4, 5 dell’articolo 71 del Dlgs 59/2010 e dei requisiti professionali di cui al comma 6 del medesimo articolo nonchè il possesso della prescritta Dia sanitaria ex regolamento Ue 852 e 853/2004.
Stabilità, Minardo (Ap): da nostro gruppo emendamento su Home Restaurant
“Il Gruppo Parlamentare Area Popolare ha presentato al Senato un emendamento alla Legge di Stabilità sulla disciplina dell’attività di Home restaurant. Dopo la recentissima proposta di legge presentata su questo tipo di attività, e tenendo conto della “bagarre” degli ultimi mesi è ormai necessario che venga recepita da parte del Parlamento l’opportunità che una normativa chiara e agile a favore di un settore nuovo, legato alla sharing economy, grazie al quale si valorizza il patrimonio enogastronomico regionale italiano e si creano nuovi posti di lavoro”. A dirlo è Nino Minardo, deputato del Gruppo Area Popolare (Ncd-Udc) e vide presidente della Commissione Attività Produttive alla Camera.
Il Sole 24 Ore – 10 novembre 2015