di Stefano Simonetti, dal Sole 24 Ore sanità. Si avvicina inesorabile la data del 25 novembre in cui entrerà in vigore – dopo il differimento di un anno – la legge 161/2014 (legge europea 2013 bis) che all’articolo 14 sancisce l’abrogazione di due norme derogatorie della normativa comunitaria in tema di orari e riposi: il comma 13 dell’articolo 41 della legge 133/2008 e il comma 6-bis dell’articolo 17 del Dlgs 66/2003. Torneranno dunque applicabili le disposizioni sulla durata massima di 48 ore della settimana lavorativa (derogata finora per la dirigenza del Ssn) e il riposo biologico di 11 ore al giorno (derogato per tutto il personale sanitario). Come mi è già capitato di segnalare mesi fa a metà esatta del periodo transitorio stabilito dal Legislatore non era stato fatto nulla e che della questione neanche se ne parlava. Sei mesi sono passati sostanzialmente invano e la situazione attuale è identica a quella precedente, anzi si potrebbe dire che è peggiorata.
Per via delle polemiche relative al finanziamento del Servizio sanitario nazionale i cui tagli certamente non consentiranno il ripristino del turn over che si renderebbe indispensabile. Preliminarmente è doveroso ricordare che la legge 161 in realtà fornisce due soluzioni operative in quanto suggerisce alle Regioni «una più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili» e «appositi processi di riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture e dei servizi dei propri enti sanitari».
Scenari ipotetici
Riguardo a questo secondo punto in effetti quasi tutte le Regioni hanno attivato processi di riorganizzazione e accorpamenti – a volte molto invasivi – ma sono tutti in corso d’opera e di reali soppressioni di posti letto o di intere strutture non se ne riscontrano molte. È, dunque, credibile che non sarà questa la soluzione.
Rispetto al primo dei “suggerimenti” della legge 161, appare indubbio che nella ricerca di una maggiore efficienza del personale il Legislatore stesso avrebbe potuto e dovuto dare una mano alle aziende sanitarie: che fine ha fatto la verifica straordinaria delle inidoneità temporanee del personale sanitario prevista dalla legge 228/2012? Perché si fa finta di ignorare che la legge 104 senza il ripristino dei requisiti di convivenza, esclusività e continuità costituisce una occasione di abusi continui? Certo, da parte loro le aziende sanitarie possono attivare qualche “efficientamento”: si potrebbero effettuare ricognizioni serie del personale “fuori posto” (in termini realistici, gli imboscati), si potrebbero riportare tutti i medici assegnati a strutture di staff o simili in servizi di assistenza – anche per giustificare l’erogazione dell’indennità di specificità medica -, si potrebbe irrigidire la gestione delle timbrature in relazione ai ritardi e ai recuperi orari, si potrebbero impugnare i giudizi dei medici competenti quando appaiano platealmente irragionevoli. È però facile comprendere che tali interventi comportano da un lato il rischio di generare tensioni e conflitti ambientali e dall’altro di portare al recupero all’assistenza diretta di poche unità lavorative.
Dei tre scenari ipotizzati, il primo – le Regioni capiscono finalmente la gravità e insostenibilità della situazione e consentono alle aziende di adeguare gli organici – sarebbe tanto auspicabile quanto irrealistico. La situazione anzi è sicuramente più critica rispetto a qualche mese fa, se non altro per la partita del rinnovo dei contratti collettivi (dei quali ancora non si sa chi si assumerà l’onere) e del mancato adeguamento del fabbisogno finanziario, fermo irremovibilmente a 111 miliardi.
Il secondo scenario che veniva ipotizzato era l’adozione di un atto legislativo di ulteriore moratoria dell’entrata in vigore della 161. Soluzione forse oggi più credibile, dato che il generale processo di riorganizzazione è indiscutibilmente partito, pur non essendo stato ancora portato a termine. Forse le condizioni per la adozione di un decreto legge potrebbero trovarsi ma sarebbe altissima la probabilità dell’arrivo delle sanzioni da parte della Commissione europea.
Il terzo scenario, si diceva, è quello di non fare assolutamente nulla e aspettare gli eventi cercando di arrangiarsi, magari preparando le giustificazioni al mancato rispetto della legge in termini di forza maggiore, divieti regionali ecc. A questo punto corre obbligatoria l’osservazione che se comunque questa partita costerà un mucchio di soldi la soluzione di maggiore buon senso sarebbe quella di assumere.
Dentro le nuove regole
Passando ai contenuti delle due norme ripristinate, va detto che sussistono alcuni aspetti che saranno sicuramente fonte di polemiche, anche per l’atteggiamento probabilmente intransigente dei sindacati. Innanzitutto in relazione alla durata massima di 48 ore, va chiarito quali fattispecie lavorative vi rientrano. A mio giudizio dovrebbero essere: l’orario di lavoro ordinario, il lavoro straordinario e le prestazioni aggiuntive ex articolo 55, comma 2, del Ccnl dell’8 giugno 2000.
Il buon senso – se non si vuole ricorrere all’interpretazione giuridica – suggerisce di escludere dalle 48 ore l’esercizio della libera professione intramuraria a livello individuale. Per convincersene basterebbe riflettere sul fatto che se si include l’Alpi nel computo viene in pratica a essere sterilizzato, se non del tutto soppresso, il diritto soggettivo alla libera professione. Riguardo all’orario di lavoro, quello attuale è di 38 ore settimanali di cui 3,5 (e non 4 come continua a sostenere qualcuno) non dedicate all’assistenza diretta. In ordine allo straordinario, si ricorda che i contratti vigenti prevedono tre tassative fattispecie tra le quali non rientra l’«impegno orario superiore a quello contrattualmente definito» richiesto per il raggiungimento del risultato.
L’altro istituto che necessità di approfondimenti è la pronta disponibilità perché l’articolo 7 del decreto 66 afferma che «il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate… da regimi di reperibilità».
Ora, se l’utilizzo dell’istituto della pronta disponibilità come disciplinato dai contratti collettivi avviene con una ragionevole coerenza con le clausole contrattuali, allora resta impregiudicato che un turno di pronta disponibilità – specie se integrativa – possa sovrapporsi al riposo di 11 ore ogni 24. Ma se, come accade sovente, la reperibilità maschera un vero e proprio turno di lavoro o una guardia, allora il ricorso a tale forma patologica di pronta disponibilità sostitutiva realizza probabilmente una organizzazione illegittima. Resta da accennare al ruolo che potrebbe assumere la contrattazione collettiva nella gestione delle criticità derivanti dall’entrata in vigore della legge 161.
La stessa normativa contenuta nel decreto 66/2003 (articolo 17, comma 1) consente alla contrattazione collettiva di derogare alle disposizioni di cui all’articolo 7. E in realtà così aveva fatto il Ccnl per il comparto del 10 aprile 2008 che all’articolo 5 aveva definito un regime sperimentale per il riposo biologico. Senonché l’articolo 14 della 161 al comma 3 prevede che cessano di avere applicazione dal 25 novembre le disposizioni contrattuali attuative delle norme abrogate. Nulla impedisce, però, che dopo il 25 novembre si stipuli un nuovo contratto collettivo (nazionale, in quanto lo stesso articolo 17 abilita la contrattazione aziendale soltanto per il settore privato) che provveda a chiarire alcuni aspetti e a definire soluzioni alternative per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori. La stessa legge 161, infatti, recita «… nelle more del rinnovo dei contratti collettivi vigenti».
Quest’ultima considerazione rende ancora più impellente e importante la partenza e la rapida conclusione dei rinnovi contrattuali dei quali, ad oggi, in verità non riceviamo alcun segnale di vitalità.
Il Sole 24 Ore sanità – 2 novembre 2015