Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente, Matteo Renzi, e del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti, ha approvato un decreto attuativo delle legge delega al Governo in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 (Jobs Act) . Via libera anche alla nuova “Disciplina della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI)” e per la “Disciplina di prestazioni ulteriori di sostegno al reddito” che prevedono misure per diverse categorie di lavoratori in caso di perdita del posto di lavoro. E intanto si apre il nodo dipendenti pubblici. Le nuove regole si applicano anche a loro, sostiene il senatore di Scelta civica Pietro Ichino che sottolinea come all’ultimo momento sia stata cancellata la norma che ne prevedeva espressamente l’esclusione. Di diverso avviso il ministro alla Pa Marianna Madia che sostiene che gli statali sono esclusi, perché entrano per concorso e quindi seguono regole diverse. Leggi anche Renzi: deciderà il Parlamento
A sera è arrivata la smentita del Governo. Il Jobs Act e il decreto attuativo sul contratto a tutele crescenti non è applicabile ai lavoratori del pubblico impiego. Lo stop secco e ufficiale è arrivato direttamente dal ministero del Lavoro ieri in serata dopo le richieste di estendere le nuove regole anche ai dipendenti pubblici. Un’ipotesi questa, caldeggiata soprattutto da Ncd e Scelta civica, a cui lo stesso ministro Poletti per ora chiude la porta: «La discussione sulla legge delega è stata fatta sul lavoro privato, mentre sul lavoro pubblico c’è in Parlamento una legge delega sulla Pubblica amministrazione, nell’ambito della quale si potranno eventualmente affrontare tali tematiche».
Ma vediamo nel dettaglio le nuove regole. Addio al reintegro nei licenziamenti economici e in una buona parte dei licenziamenti disciplinari. Per i neo assunti, dal 2015, scatterà il contratto a tutele crescenti, e le nuove norme, è una novità dell’ultim’ora, si estenderanno anche ai licenziamenti collettivi (che sono economici per definizione). È quanto prevede il Dlgs con la nuova normativa sul contratto a tutele crescenti appena varato dal Governo, assieme a una prima lettura del Dlgs sull’Aspi.
I nuovi contratti. Ecco cosa cambia. Le regole per le imprese, i dipendenti e i disoccupati
Addio alle vecchie protezioni Indennizzo da 4 a 24 mensilità
Quando il decreto legislativo sarà in vigore (bisogna attendere un mese per i pareri non vincolanti del Parlamento) coloro che verranno assunti (sia per la prima volta, sia perché cambiano lavoro) con il contratto a tutele crescenti non avranno più le protezioni sui licenziamenti previste dall’articolo 18 dello Statuto. Il diritto al reintegro nel posto di lavoro scatterà solo per i licenziamenti discriminatori e per quelli disciplinari se il giudice accerterà che il fatto contestato non sussiste. Altrimenti ci sarà un indennizzo da 4 a 24 mensilità.
Non si applica l’articolo 18 se si superano i 15 addetti
Il nuovo contratto a tutele crescenti vale con le stesse regole per tutte le assunzioni, senza distinzioni tra aziende con meno o più di 15 dipendenti. Le imprese che supereranno la soglia dei 15 grazie ai dipendenti a tutele crescenti non saranno più soggette ad applicare l’articolo 18 dello Statuto (né sui vecchi né sui nuovi assunti). Le aziende saranno incentivate a crescere, anche perché oltrepassando la soglia dei 15 potranno in certi casi veder scendere l’indennizzo cui hanno diritto i licenziati.
Duello sull’applicazione nel pubblico impiego
Secondo il giuslavorista Pietro Ichino, che ha collaborato all’estensione del testo del decreto legislativo, il contratto a tutele crescenti si applica a tutti i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici. Secondo il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, no. Si ripropone quindi lo scontro già avvenuto in occasione della riforma Fornero dell’articolo 18. In mancanza di norme che facciano chiarezza, la giurisprudenza è tuttora divisa sull’applicabilità delle norme sui licenziamenti ai dipendenti pubblici.
I nuovi contratti Scompare il reintegro per i licenziamenti collettivi
Le nuove regole sui licenziamenti individuali si applicano anche ai licenziamenti collettivi, relativamente ai dipendenti assunti con contratto a tutele crescenti. Ciò significa che, per questi ultimi, eventuali licenziamenti illegittimi non sarebbero sanzionati con il reintegro (tranne che per i casi di discriminazione e di insussistenza del fatto disciplinare) ma con gli indennizzi. La norma potrebbe rivelarsi di difficile applicazione in caso di licenziamento di lavoratori in parte coi vecchi contratti e in parte coi nuovi.
Arriva la Naspi, l’assegno che può durare 24 mesi
Da maggio debutta la Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego. Si tratta, secondo il decreto approvato «salvo intese», di un’indennità di disoccupazione che sostituisce Aspi e Mini Aspi. Si estende, con il nome di Dis-Coll, per il 2015, ai co.co.co. e co.co.pro. La Naspi durerà al massimo 24 mesi contro i 18 dell’Aspi. La Dis-Coll durerà invece non più di sei mesi. L’importo iniziale sarà pari al 75% della retribuzione fino a un tetto di 1.300 euro. Dal quinto mese scende del 3% al mese. (a cura di Enrico Marro)
LA SCHEDA: Jobs Act, le regole dei nuovi contratti
Ecco le tutele crescenti, ossatura del nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato. Lo schema di decreto legislativo presentato il 24 dicembre attua la delega in 12 articoli, centrati sulle modifiche ai licenziamenti, sia individuali che collettivi.
– LICENZIAMENTI INDIVIDUALI. Per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio (che beneficeranno degli sgravi triennali previsti dalla legge di stabilità), si esclude nei casi di licenziamenti economici la possibilità del reintegro del lavoratore, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio. Si limita poi il diritto al reintegro ai licenziamenti discriminatori, nulli e intimati in forma orale, nonchè ai licenziamenti disciplinari ingiustificati in cui sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
Non solo, la riassunzione scatta anche quando il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivi legati all’inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
– NIENTE OPTING OUT. Non c’è nel testo alcun riferimento all’opting out che non è stato approvato dal governo. Non ci sarà così la possibilità, per le imprese, nel caso in cui il giudice preveda il reintegro, di evitare la riassunzione pagando un maxi-indennizzo.
– INDENNIZZO DIVERSIFICATO PER IMPRESE PICCOLE E GRANDI. In tutti i casi di indennizzo, quindi per i licenziamenti ingiustificati di tipo economico e per parte di quelli disciplinari, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro. Invece per le imprese fino a 15 dipendenti l’indennizzo è dimezzato e non può in ogni caso superare il tetto delle sei mensilità.
– NOVITA’ ANCHE PER LICENZIAMENTI COLLETTIVI. Per quelli che vengono intimati in forma orale è previsto il reintegro, come del resto per gli individuale. Invece per i licenziamenti collettivi che presentano un vizio di procedura o di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da mettere in uscita scatta l’indennizzo sulla base di due mensilità per anno, con un minimo di 4 mensilità. La disciplina del Jobs act si estende così anche ai casi di crisi aziendali.
– ARRIVA IL CONTRATTO DI RICOLLOCAZIONE. Viene istituito un Fondo per la ricollocazione dei lavoratori in stato di disoccupazione involontaria (50 milioni per il 2015 e 20 per il 2016). Il lavoratore licenziato illegittimamente avrà così il diritto di ricevere un voucher, che presentato a un agenzia per il lavoro porterà alla sottoscrizione di un contratto di ricollocazione. La riscossione del voucher da parte dell’agenzia è subordinata al raggiungimento del risultato.
Di seguito pubbichiamo l’intervista a Pietro Ichino del Corriere della Sera del 27 dicembre che ha innescato le polemiche sull’applicabilità delle nuove norme sul lavoro anche al pubblico impiego
su questo tema leggi anche l’intervista al ministro della Pa Marianna Madia
ICHINO: «LE NUOVE REGOLE VALIDE ANCHE PER GLI STATALI»
«Certo che le nuove regole saranno applicabili anche ai dipendenti pubblici. Tanto è vero che, quasi all’ultimo momento, è stata cancellata la norma che ne prevedeva espressamente l’esclusione». Pietro Ichino, senatore di Scelta civica, è tra le poche persone che hanno vissuto dal di dentro la lunga trattativa sul Jobs act , prima come relatore al Senato del disegno di legge delega poi nell’elaborazione collettiva del primo decreto attuativo, quello sul contratto a tutele crescenti, approvato in consiglio dei ministri alla vigilia di Natale.
La questione è tecnica e Ichino, da giuslavorista d’esperienza, entra nei dettagli: «Il testo unico dell’impiego pubblico stabilisce che, salve le materie delle assunzioni e delle promozioni, che sono soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato».
Ma c’è chi, come il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia sostiene che gli statali sono esclusi, perché entrano per concorso e quindi seguono regole diverse: «Qualche volta — risponde lui — anche i ministri sbagliano, concorso non significa inamovibilità. E sbaglia chi voleva l’espressa esclusione dei dipendenti pubblici, come la minoranza di sinistra del Pd e probabilmente anche qualcuno all’interno delle strutture ministeriali. Non si rendono conto che il contratto a tutele crescenti costituisce l’unica soluzione possibile per il problema del precariato, anche nel settore pubblico. Il precariato è l’altra faccia, strutturalmente inevitabile, dell’inamovibilità dei lavoratori di ruolo».
Nel suo blog Ichino scrive che servirebbe un chiarimento fra Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, parla più volte di una «non identificata mano di estensore ostile alla riforma», alludendo a qualche tecnico dello stesso ministero. Perché Poletti ha cambiato linea in questi ultimi giorni? «Questo andrebbe chiesto a lui. Certo è che il 23 dicembre dal suo ministero è arrivata una bozza contenente, insieme ad altre cose incongruenti con la riforma, persino un drastico ridimensionamento della portata dello stesso decreto Poletti sui contratti a termine, emanato neanche nove mesi fa. Se non fossimo riusciti a sventarla, quella follia avrebbe minato la credibilità di tutta la riforma, sottolineandone una volatilità a dir poco patologica». Se questo chiarimento non dovesse esserci Poletti dovrebbe dimettersi? «Non ho detto questo. Però, certo, il governo non può permettersi incoerenze con il proprio programma. Tanto meno sulla riforma del lavoro e su quella delle amministrazioni pubbliche, che ne costituiscono una parte fondamentale sul piano economico e su quello politico, interno ed europeo».
Nel complesso Ichino dà al decreto approvato dal consiglio dei ministri un «sette» perché è un «passo avanti anche se non la riforma organica che avrebbe potuto essere». E, forse a sorpresa, insiste sull’opting out, cioè la possibilità per l’azienda di superare il reintegro diposto dal giudice in caso di licenziamento disciplinare illegittimo pagando un indennizzo più alto. «È sicuramente tramontata la sua versione caricaturale — spiega — che compariva nell’ultima bozza: un opting out che costi all’impresa quasi quattro anni di retribuzione non interessa a nessuno. Resta il fatto che, se vogliamo davvero allinearci agli altri Paesi che applicano, sia pur marginalmente ed eccezionalmente, la reintegrazione nel posto di lavoro, dobbiamo introdurre anche noi questa “valvola di sicurezza”, per evitare che si determinino alcune situazioni paradossali, oggi purtroppo assai frequenti nelle nostre cronache giudiziarie». Non basta, secondo lui, la nuova formulazione che stringe ancora di più la possibilità di reintegro e cioè il fatto che sia «direttamente» dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’applicazione pratica la spiega così: «Quando il lavoratore vince la causa per insufficienza di prove, è giusto che sia indennizzato. Ma gli indizi di colpevolezza che in questo caso pur sempre restano ben possono costituire una giustificazione oggettiva del fatto che l’impresa non rinnovi il proprio affidamento in lui». (Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera)
27-28 dicembre 2014