La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 26 novembre 2014 ha provocato grande clamore su tutti i media fin dal giorno della sua adozione ma, in realtà, era un evento annunciato da tempo. La procedura di infrazione era aperta da anni, in quanto l’Italia non rispetta uno dei punti chiave della normativa europea in tema di lavoro, cioè la sanzione a carico del datore di lavoro in caso di abuso del contratto a tempo determinato. O, meglio, siamo inadempienti nell’ambito del pubblico impiego, per cui appare doveroso fare un breve riepilogo della questione. L’articolo 5, comma 2, del Digs 368/2001 sancisce la trasformazione del rapporto quando venga illegalmente superato il termine massimo. Da parte sua però l’articolo 36, comma 5, del Digs 165/2001 ha stabilito che nel pubblico impiego la violazione della normativa generale in ogni caso «non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni».
Il disallineamento è dovuto evidentemente alla sovrapposizione dell’articolo 97, comma 3, della Costituzione («agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso») rispetto alla normativa comunitaria. In buona sostanza il legislatore italiano ha ritenuto che il dettato costituzionale dovesse prevalere sulla norma comunitaria che prevedeva una forma di accesso alla Pa (la trasformazione del rapporto a tempo determinato) non ammissibile.
Evidentemente, in ambito europeo le varie autorità non la pensano così e si è pertanto giunti alla sentenza di cui parliamo che ha stabilito – rinviando però la decisione ai giudici italiani di merito – che i precari della scuola hanno diritto alla trasformazione del rapporto senza escludere che abbiano anche diritto al risarcimento derivante dai continui rinnovi.
Ricadute extra scuola? Come può influenzare questa sentenza il resto del pubblico impiego e quali ricadute potrebbero esserci nello specifico della Sanità? Innanzitutto è corretto cominciare con i numeri: sono interessati a eventuali effetti della pronuncia circa 36mila precari che lavorano nel Servizio sanitario nazionale. Altro punto fermo da chiarire – per evitare di ripetere gli equivoci sorti all’epoca della promulgazione della legge 125/2013 – e che il contenuto della sentenza non può in nessun modo riguardare il lavoro atipico, cioè le partite Iva, le Co.Co.Co. o altre fantasiose forme contrattuali. Nei confronti di questa platea di soggetti che costituiscono il “vero” precariato sarebbe irresponsabile che qualcuno continui a illuderli, visto che il loro problema e la relativa soluzione non è affatto giuridica ma prettamente politica.
Nei confronti dei 36mila potenziali destinatari della sentenza va poi effettuata una selezione in ragione di coloro (ma sono sicuramente la maggioranza) che hanno superato i trentasei mesi di contratto a tempo determinato.
Personale sanitario. Per la Sanità sussistono almeno due variabili della problematica. La prima riguarda coloro che posseggono i requisiti fissati dali’articolo 4, comma 10, della legge 125/2013 per poter beneficiare del percorso di stabilizzazione. La seconda concerne il personale sanitario che gode della deroga Balduzzi, cioè dell’articolo 4, comma 6, della legge 189/2012, che aveva posto una deroga alla durata massima triennale al fine di «garantire la costante erogazione dei servizi sanitari».
Sul primo aspetto non si può che prendere atto che la stabilizzazione programmata lo scorso anno è fallita miseramente o, meglio, non è neanche partita. Infatti, un passaggio fondamentale avrebbe dovuto essere l’adozione di un Dpcm che disciplinasse le modalità del percorso. Esattamente un anno fa sono circolate varie versioni del decreto ma poi, improvvisamente, se n’è persa ogni traccia, forse nella consapevolezza che i destinatari del beneficio erano ormai stati “fotografati” alla data del 30 ottobre 2013 e potevano essere prorogati, anche dopo il terzo anno, fino al 31 dicem bre 2016.
Ma il punto fondamentale del percorso era e resta la sua assoluta aleatorietà, in quanto la legge citata afferma testualmente che «le amministrazioni pubbliche possono bandire (…) procedure concorsuali (…) riservate esclusivamente a coloro…».
Sul secondo aspetto – quello della deroga per il personale sanitario – sussistono molte perplessità circa la stessa sua costituzionalità, sebbene la norma sia finalizzata a evitare interruzioni di assistenza. Orbene, alla luce dei contenuti della sentenza è di tutta evidenza che la legge n. 125 è in linea con la Corte europea, che impone di «indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali», perché in fondo il termine del 31 dicembre 2016 può essere plausibile. Tuttavia come condizioni ineludibili per non incorrere in una nuova pronuncia di condanna dovrà essere adottato immediatamente il Dpcm e, soprattutto, il legislatore ordinario deve cancellare la parola «possono» e sostituirla con «devono».
Non va sottovalutato che quanto appena affermato sarà difficilissimo da attuare soprattutto per le Regioni soggette a piano di rientro. Ma non esistono alternative e il costo delle stabilizzazioni potrebbe essere esponenzialmente aumentato per le spese legali cui i giudici del lavoro inevitabilmente condannerebbero le aziende sanitarie inadempienti. In secondo luogo, la deroga Balduzzi va rivista e riportata nell’ambito delle regole generali.
Il nodo risarcimenti. Resta per ultima la questione del « risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo». Questo è forse l’aspetto meno preoccupante e neutro in quanto – ferme restando altre forme di risarcimento (morale, esistenziale, per perdita di chance) – quello individuato dalla Corte europea riguarda gli scatti di anzianità non ottenuti e il rischio non dovrebbe concretizzarsi in quanto dal 1° gennaio 2010 per effetto del decreto Tremonti per tutti i dipendenti – anche per quelli a tempo indeterminato – non decorrono gli istituti contrattuali assimilabili agli scatti di anzianità del comparto Scuola (fasce economiche del comparto o fasce dell’indennità di esclusività per la dirigenza sanitaria).
Stefano Simonetti – Il Sole 24 Ore sanità – 2 dicembre 2014
La Corte (terza sezione) dichiara: La clausola 5, punto I, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/Ce del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure con corsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fotte salve le necessarìe verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente a un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.