Roberto Petrini. Scoppia il caso delle superpensioni più alte dell’ultimo stipendio. Per circa 160 mila italiani, che guadagnano 200 mila euro e più, si prospettano nei prossimi anni assegni previdenziali più pesanti del 20 per cento rispetto all’ultima busta paga incassata. Una circostanza sorprendente per chi, dopo riforme e tagli di anni e anni, è abituato a contare su un assegno che oggi può arrivare al massimo al 70 per cento dell’ultimo stipendio percepito. Il meccanismo è stato messo in moto dalla discussa riforma Fornero nel 2011 e ad accorgersene sono stati i tecnici del governo Renzi (oltre ad alcuni parlamentari della Lega e del centrodestra), decisi a modificare la norma che consente soprattutto a chi guadagna di più di portare a casa, se è disposto a continuare l’attività fino a 70 anni, una pensione più pesante dello stipendio. L’emendamento volto a modificare questo andazzo potrebbe essere presentato alla legge di Stabilità alla Camera o al Senato.
Oltre che sul piano dell’equità, la questione solleva criticità per i conti pubblici. Se il meccanismo dovesse continuare ad operare come è scritto nella legge Monti-Fornero nei prossimi dieci anni si avrebbe un aggravio sulle casse dello Stato e necessità per l’Inps pari a 1,5 miliardi. Solo per quest’anno il conto sarà di 2 milioni e arriverà nel 2023 a circa mezzo miliardo.
Come è potuto accadere? Per capirlo bisogna ritornare alla riforma Fornero: uno dei capisaldi in quell’epoca di emergenza era quello di limare l’effetto della progressione delle pensioni. Nel mirino finì il sistema retributivo, cioè quello in base al quale si va in pensione con la media degli ultimi stipendi che, fin dalla riforma Dini del 1994, fu ritenuto responsabile di una alta dinamica di spesa. Già dal 1996 infatti si era stabilito che tutti coloro che avevano meno di 18 anni di contributi sarebbero dovuti andare in pensione da allora, pro-rata, con il sistema contributivo (prendi solo quanto versi, a prescindere dall’ultimo stipendio); coloro che avevano invece più di 18 anni di contributi al tempo della riforma Dini mantennero il diritto integrale al retributivo. Molti di costoro avevano già una storia previdenziale consolidata e costosa: così Monti-Fornero decisero di stoppare il retributivo anche per questi soggetti a partire dal 2012 e di ricominciare il calcolo con il contributivo.
Contestualmente la legge Fornero aumentò l’età pensionabile fino a 70 anni dal 2012. L’idea era la seguente: con il contributivo l’ultima retribuzione non conta più, più lavori e più prendi, tanto più che potrai lavorare fino 70 anni. Inutile mantenere anche il vecchio tetto di 40 anni ai contributi (che garantiva una pensione pari all’80 per cento della retribuzione): meglio incoraggiare la gente a rimanere al lavoro con il contributivo e cumulare più risorse presso il conto-Inps.
Tuttavia se lo stipendio è rilevante, come può accadere per alti burocrati o manager privati, c’è un rischio: che senza tetto quarantennale ai versamenti, una sorta di clausola di salvaguardia, chi lavora fino 70 anni e versa sulla base di uno stipendio molto alto (si parla di circa 200 mila euro lordi), continuerà ad arricchire il conto della propria pensione e dunque costituirà un assegno sempre più ricco, più alto del 20 per cento dell’ultimo stipendio. Un fenomeno che investe circa 160 mila soggetti che avranno una pensione d’oro, più pesante dell’ultimo stipendio in molti casi già alto. A meno che non si introduca nuovamente la “clausola di salvaguardia”, mettendo mano alla riforma Fornero.
Pensioni, no a rivalutazioni extra. Gli assegni contributivi non potranno essere più elevati rispetto al vecchio regime
Ultime 48 ore di esame per il ddl stabilità in commissione Bilancio alla Camera. Tra le novità dell’ultima ora che saranno messe al voto tra oggi e domani per poi consegnare la legge di stabilità 2015 all’esame dell’Aula spiccano soprattutto la riduzione da 150 a 75 milioni di euro del taglio ai patronati così come una possibile correzione del Governo sulle pensioni degli alti funzionari dello Stato. Non solo. Il Governo torna alla carica anche sulla riforma del Fondo sviluppo e coesione e sarebbe pronto ad accogliere possibili modifiche per il riconoscimento ai lavoratori dell’amianto, e soprattutto ai parenti, del diritto alla pensione ai superstiti. Sempre sul tema sociale il Governo potrebbe introdurre una norma che indichi in 25mila euro il limite Isee (50/60mila euro di reddito complessivo patrimonio incluso) per l’utilizzo di tutte le prestazioni del fondo famiglia, e dunque oltre quella già prevista dal ddl del bonus bebè. Porte sbarrate dal Governo invece per definire la cosiddetta quota ’96 per i lavoratori della scuola così come per lo scorrimento delle graduatorie della Guardia di Finanza. Per le Tv locali si potrebbe intravedere un’apertura dell’Esecutivo ad accogliere alcune richieste parlamentari (sono 15 gli emendamenti trasversali), anche se l’idea di fondo resta quella di disciplinare tutto con la riforma del canone Tv nel corso dell’esame a Palazzo Madama.
Sulle pensioni dei “grand commis” il Governo punterebbe ad assicurare una minore spesa previdenziale per quasi 8-900 milioni cumulati entro il 2020, utilizzabili a copertura strutturale per altri interventi di carattere previdenziale.
Di che si tratta? La correzione servirà per assicurare che, con le nuove regole introdotte dalla riforma del 2011, si scongiuri la possibilità che il nuovo regime garantisca una pensione più elevata rispetto a quanto sarebbe stato possibile con il regime previgente. Cancellando il tetto contributivo dei 40 anni chi ha potuto allungare la sua carriera lavorativa grazie ai più elevati limiti pensionistici ordinamentali lo ha fatto (magistrati, professori universitari, avvocati dello Stato, alti burocrati e militari, soprattutto). Ed ora si trova in una situazione di vantaggio nel calcolo complessivo della pensione. Visto che, per la parte retributiva, vale come riferimento l’ultimo stipendio, in pratica possono determinarsi situazioni di pensioni superiori all’80% del valore dell’ultimo stipendio. L’emendamento cancella proprio questa possibilità, stabilendo che i trattamenti pensionistici calcolati con le nuove regole non potranno in ogni caso esser superiori a quelli che sarebbero maturati con il vecchio regime.
Su Irap, fondi pensione, revisione del taglio da 4 miliardi alle regioni e altri temi caldi come quello della patrimoniale sui macchinari il Governo rinvia il dibattito al Senato. E sulla determinazione della rendita catastale dei macchinari imbullonati l’emendamento sarebbe già pronto (si veda l’intervista a Enrico Zanetti qui a fianco). Resta comunque da capire se la soluzione predisposta riguarderà tutti gli immobili di categoria D (non solo i D1) delle imprese e se potrà interessare anche le rettifiche delle rendite catastali già notificate all’entrata in vigore della nuova disposizione. Inoltre la neutralizzazione della norma del ’39 sugli imbullonati dovrebbe riguardare non solo i tributi locali ma anche le altre imposte indirette (bollo, ipocatastali ecc.) la cui base imponibile è determinata sulla base della rendita catastale.
Repubblica e Il Sole 24 Ore – 25 nvembre 2014