di Luca Fraioli e Rodolfo Galdi (Repubblica.it). Il settore ha prodotto per anni cavalli straordinari, facendo dell’allevamento dei purosangue una vera e propria industria di successo. Ora, dopo tagli ai fondi, incremento delle scommesse elettroniche, errori della politica e autogol di una categoria perennemente litigiosa, tutto il comparto versa in una crisi nerissima. Negli ultimi quattro anni ha chiuso il 35 per cento delle scuderie e sono andati in fumo duemila posti di lavoro. Fino al paradosso di interi centri prestigiosi svenduti su internet. Sprechi, burocrazia, corruzione, cattiva politica, soldi pubblici usati per affari privati: non si uccidono così anche i cavalli? Ebbene sì. Anche questi animali stanno pagando un caro prezzo alla crisi (non solo economica) che attraversa il Paese. L’Italia era una terra di allevatori che sfornavano campioni da esibire sulle piste e sui campi ostacoli di tutto il mondo.
Ora nascono così pochi puledri da mettere in forse anche le gare dei pochi ippodromi rimasti. E insieme ai purosangue e ai trottatori scompaiono i posti di lavoro: c’è chi calcola che dal 2010 a oggi il 35% degli allevamenti abbia chiuso le sue scuderie, mandando a casa almeno 2000 addetti. Come è potuto succedere, nell’Italia che vantava una grande tradizione equestre e mentre altre nazioni vicine trasformavano l’ippica in un business ancora più redditizio che in passato?
Da noi, si sa, individuare i responsabili è un’impresa spesso impossibile. Più sfiancante di un derby di galoppo, più insidiosa di un gran premio a Piazza di Siena. Specie quando, come in questo caso, le colpe sono distribuite tra molti soggetti diversi e nell’arco di un periodo che copre un quindicennio: ministri che hanno elargito prebende, altri che hanno tagliato con l’accetta, ma anche un mondo equestre che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità quando la politica ha finanziato a pioggia, per poi accorgersi (ma troppo tardi) che avrebbe dovuto camminare con le proprie gambe invece di confidare sempre nella stampella milionaria dello Stato. Ma se stilare un elenco di colpevoli con nomi e cognomi è complicato, e forse perfino inutile, analizzare le ragioni del declino di un settore una volta prospero può essere d’aiuto.
CAVALLI REGALATI PER PAURA DEL FISCO
Il viaggio nella lenta agonia del cavallo italiano inizia a Verona, sede, ogni inizio novembre da 116 anni a questa parte, di una delle più importanti rassegne equestri d’Europa. Anche quest’anno, nonostante la crisi (anzi, le crisi: quella economica generale e quella specifica del settore) migliaia di cavalli attireranno in Fiera un pubblico di curiosi e di addetti ai lavori. “Noi ci saremo a spese nostre” spiega Luca Marcora, figlio di Giovanni, ministro dell’Agricoltura negli anni Settanta, membro dell’Associazione italiana allevatori e presidente dell’Associazione nazionale cavallo bardigiano. “Ogni anno andiamo a Fieracavalli per promuovere le nostre razze, non cavalli destinati a diventare campioni ma animali agricoli, con cui fare passeggiate o piccole gare. Per la prima volta quest’anno parteciperemo completamente a spese nostre perché il ministero dell’Agricoltura ha cancellato i fondi destinati alle attività straordinarie, come la partecipazione a fiere e rassegne, appunto”.
Ecco: i tagli. Nell’era della spending review molti rubinetti sono stati chiusi improvvisamente dopo anni di sprechi. Ancora poche edizioni fa, Province e Regioni spendaccione finanziavano (a spese dei contribuenti) “vacanze-premio” a Fieracavalli a delegazioni composte da decine di persone. Ora i soldi sono finiti e si taglia. Ma si rischia di buttare il puledrino con l’acqua sporca. “Come se non bastasse”, continua Marcora, “il ministero ha ridotto il finanziamento per la gestione dei libri genealogici”. Che vuol dire? In Italia abbiamo razze equine autoctone: il cavallo maremmano, l’haflinger, il bardigiano, il tiro pesante rapido, il lipizzano, il murgese…. Ogni razza ha un’associazione che gestisce il libro genealogico, una sorta di anagrafe con i nuovi nati e il loro pedigree. Attività che ha un costo e alla quale lo Stato in passato contribuiva in modo molto consistente. Ora non più.
Ma più dei tagli, a spaventare i piccoli allevatori è il redditometro. Da qualche anno il possesso di uno o più cavalli fa parte degli indicatori usati dall’Agenzia delle entrate per far scattare eventuali accertamenti sui contribuenti. “Mantenere un cavallo da passeggiata in campagna costa molto meno che avere un cavallo da concorso in una scuderia del centro cittadino, ma il redditometro non va troppo per il sottile”, avverte Marcora. “Molti rinunciano all’idea di comprare un cavallo perché spaventati dall’idea di finire nel mirino del fisco. Come Associazione italiana allevatori abbiamo provato a proporre all’Agenzia delle entrate una differenziazione in base alla tipologia di cavallo, ma non c’è stato nulla da fare”.
E’ la filosofia del “colpirne 100 per educarne 1”. C’è qualcuno che evade? Facciamo accertamenti su tutti. Altro caso esemplare di questa tecnica dissuasiva riguarda il trasporto dei cavalli. Per contrastare il fenomeno dei trasportatori abusivi di animali, anziché intensificare i controlli e la repressione, il legislatore ha preferito elaborare una norma che suona più o meno così: tutti coloro che non sono trasportatori per professione possono caricare sui loro camion o carrelli solo cavalli di loro proprietà. Quindi chi possiede un mezzo per il trasporto cavalli non potrà mai dare un passaggio al quadrupede di un amico, pena un verbale salatissimo. Il risultato è che alla lunga in molti hanno rinunciato non solo all’idea di possedere un van o un trailer, ma persino ad avere un cavallo.
Il combinato disposto di crisi economica, spending review e politica fiscale strabica ha generato un’ondata di svendite: sul web si moltiplicano le offerte per poche centinaia di euro. “Molti proprietari sono preoccupati dai costi e dalle complicazioni dovute all’avere uno o più cavalli e allora li mettono in vendita”, spiega Marcora. “Se non funziona si prova con la svendita e se nemmeno quella va in porto li si regala. Decine di persone mi hanno offerto cavalli in regalo negli ultimi mesi”. E se non c’è stato il fenomeno dell’abbandono in massa, come accadde qualche anno fa in Irlanda, è solo perché ormai la quasi totalità dei cavalli in Italia è dotata di microchip.
IL TESORO SMARRITO DELLE SCOMMESSE
di Luca Fraioli. A Guerino Boglioni è appena stata notificata una multa da 537mila euro. “Non riuscirò mai a pagarla. Sostengono che nelle mie scuderie ci fossero cavalli che non avevo dichiarato, in realtà non erano miei”. Boglioni non è un allevatore qualunque: appena fuori Brescia fa nascere e crescere cavalli che vincono in tutto il mondo. Il suo prodotto più famoso al momento èEremo del Castegno che, montato dal carabiniere Valentina Truppa, è considerato uno dei migliori esemplari da dressage in circolazione. E uno dei più forti cavalieri di salto ostacoli, il tedesco Ludger Beerbaum, ha scelto di puntare su una femmina nata nelle scuderie di Boglioni: Luce del Castegno. Eppure gli affari non vanno bene. “Se l’equitazione di base è allo sfacelo per lo spauracchio del redditometro, l’equitazione agonistica deve fare i conti con un’Iva al 22%” dice Boglioni. “Se su un cavallo che vendo a 10mila euro ci si devono pagare 2200 euro di tasse, allora mi conviene allevare un vitello, che mi costa lo stesso come consumi ma almeno è tassato al 4%. Senza contare che con tassazioni così alte si induce a tenere nel sommerso tutta l’economia che gira intorno ai cavalli: veterinari, maniscalchi, foraggio… E poi il ministero impone regole impossibili: per iscrivere all’anagrafe equina un puledro devo spendere 104 euro, nemmeno un bambino costa così. Io voglio continuare ad allevare cavalli, ma se in Italia diverrà impossibile andrò a farlo all’estero”.
C’era una volta l’ippica. Se i cavalli “agricoli” (o da passeggiata) e da sella (quelli del salto ostacoli e del dressage) hanno sempre rappresentato una passione per migliaia di italiani senza mai ambire a diventare un vero business, c’è stata un’epoca, anche molto recente, in cui le corse di trotto e di galoppo erano invece un affare miliardario che dava lavoro e sostentamento a decine di migliaia di famiglie, tra allevatori, ippodromi, tecnici, fantini, driver, sale scommesse. “Quell’era è finita e rischia di non tornare mai più se continuiamo così”, confessa Isabella Asti Bezzera, presidente dell’Associazione nazionale allevatori cavalli purosangue, l’equivalente della Formula 1 delle corse di galoppo. Le responsabilità? “Della politica che si è appropriata dell’ippica quando giravano i miliardi, per poi tagliare senza criterio negli ultimi anni. Ma anche del nostro mondo che si è lasciato scippare il tesoro che aveva tra le mani”.
Il tesoro ha un nome preciso: scommessa. Fino a pochi anni fa l’ippica aveva l’esclusiva delle scommesse sportive e si potevano puntare legalmente soldi solo nelle sale corse. Poi c’è stata l’esplosione degli altri giochi. E per le corse di cavalli è stato l’inizio della fine. “Tutte le altre scommesse hanno usufruito degli spazi dell’ippica, si sono insediate nelle sale corse”, spiega Isabella Asti Bezzera. “Non solo: le scommesse sui cavalli sono diventate meno convenienti: vinco molto di più se punto un euro su una partita di calcio o su una corsa virtuale (cavalli “digitali” messi in competizione dal computer) piuttosto che se mi gioco il vincente del derby di galoppo”. Meno scommesse significano montepremi più poveri e quindi meno incentivi agli allevatori. Il rapporto causa effetto è lampante se si guardano i dati: nel 2006 il montepremi per le corse di galoppo era di 47 milioni di euro a fronte di 7 milioni ricavati dalle vendite alle aste di purosangue italiani. Sette anni dopo, nel 2013, il montepremi si era quasi dimezzato: 25 milioni di euro e infatti si sono venduti molti meno puledri alle aste, che hanno fruttato appena 1,8 milioni.
“L’ippica funziona dove funzionano le scommesse”, conferma Roberto Brischetto. Nel suo allevamento alle porte di Torino pascola il più forte trottatore dei tempi recenti, quel Varenne che ha vinto tutto ciò che c’era da vincere tra il 1998 e il 2002. Ritiratosi dalle gare ora fa lo stallone: lavoro comunque redditizio visto che è il primo cavallo europeo per vincite dei figli. “Ma nonostante i successi di Varenne, in pista e fuori, anche il mondo del trotto è in catalessi” continua Brischetto. “Nascono così pochi puledri che tra poco non ci saranno abbastanza cavalli per fare le gare”, sentenzia.
Ma non sarà che i cavalli appartengono al passato e che se sempre meno gente scommette sulle corse o frequenta gli ippodromi, tutto sommato è un segno dei tempi? “Certo, il mondo cambia e l’ippica non sarà più come prima, ma ha una tradizione millenaria che andrebbe tutelata. Questo invece è un Paese che butta via tutto, anche le sue opere d’arte. Altri non fanno così: in Francia ad ogni nuovo gioco introdotto nelle sale scommesse hanno applicato una piccola percentuale da destinare alle corse”.
LA POLITICA È SMONTATA DI SELLA
Salvare l’ippica significa anche preservare posti di lavoro (considerando l’indotto si arriva a 30mila occupati) e tutelare del territorio: in Italia oltre 200mila ettari di terreno sono preservati dalla cementificazione o dall’abbandono perché destinati all’allevamento. “Per capire le occasioni, anche economiche, che ha perso l’Italia”, racconta Roberto Brischetto, uno dei più importanti allevatori italiani, “basta fare un esempio: lo stallone più costoso del mondo si chiama Galileo e vive in Irlanda. Se un allevatore vuole il suo seme per una fattrice deve sborsare 250mila euro. E ogni anno ci sono circa 120 puledri che nascono da lui. È facile calcolare quanto vale un cavallo del genere: 30 milioni l’anno. Ebbene, un simile ‘tesoro’ ha origini italiane: un quadrisavolo di Galileo, Nearco, era italiano. Ora anche un simile patrimonio se ne è andato all’estero”.
Il crollo delle scommesse da solo non basta a spiegare il disastro dell’allevamento italiano. “Infatti”, chiosa causticamente Brischetto, “siamo stati anche derubati dalla politica”. “Prima – ricorda – quando giravano tanti soldi, anche 500 milioni di euro l’anno, la politica si è appropriata dell’Unire(Unione nazionale incremento razze equine), poi, dopo averla spolpata, ci ha lasciato le ossa e ha chiuso i finanziamenti”. A guardare i dati forniti dal ministero dell’Agricoltura il risveglio deve essere stato davvero brusco: a partire dal 2009 e fino al 2011 lo Stato trasferisce al mondo dell’ippica circa 150 milioni di euro l’anno. Poi improvvisamente nel 2012 appena 41 milioni. Uno shock.
“Non pretendiamo di continuare a vivere con i soldi pubblici”, conclude Brischetto. “Ma che almeno ci lascino le mani libere. La politica ha promesso una riforma del settore entro il 2017. Ma rischia di essere troppo tardi. Bisogna fare qualcosa subito. Qualunque cosa, ma subito”. “Mani libere” significa privatizzare il mondo delle corse e degli ippodromi in modo che siano in grado di vivere e guadagnare senza aiuti statali. Si guarda all’estero, per esempio agli Stati Uniti, dove ai bordi delle piste di trotto e di galoppo sono sorti veri e propri casinò: chi gioca alle slot machine contribuisce un po’ anche alla sopravvivenza degli allevamenti italiani. Ma non è così semplice. E, dicono nei corridoi del ministero dell’Agricoltura, non è solo colpa dei politici.
Il mondo dell’ippica non parla con una sola voce. Ai tavoli delle trattative col governo siedono qualcosa come settanta sigle, una o più per ogni categoria: fantini, driver, allenatori, giudici di gara, proprietari, allevatori, ippodromi, società di scommesse. E poi c’è l’alta burocrazia, quella rete di funzionari contro cui tutti, dall’ultimo dei cittadini al primo dei sottosegretari, si dichiarano impotenti. Un esempio: il 3 maggio 2013, in vista del riassetto del settore, il ministero dell’Agricoltura chiede al Consiglio di Stato che tipo di figura giuridica si debba immaginare per i nuovi ippodromi “privatizzati”: società di servizi o cos’altro? Dopo averci pensato per otto mesi, il Consiglio di Stato gira il quesito alla presidenza del Consiglio, che a sua volta lo inoltra al ministero dell’Economia e al Dipartimento degli affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi. Il ministero dell’Economia, a sua volta, interroga in proposito il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Non risulta sia giunta risposta. Il Dipartimento degli affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, invece, non sapendo cosa rispondere, ha pensato bene di rivolgersi al ministero dell’Agricoltura: voi cosa ne pensate? E così il cerchio si è chiuso. Un anno e mezzo dopo, senza che sia stata presa alcuna decisione.
LA PROMESSA DEL GOVERNO: RIFORMA IN ARRIVO
Non nega le responsabilità della politica, ma sottolinea la litigiosità e gli sprechi del mondo dell’ippica. Vuole abbassare l’Iva sui cavalli dal 22 al 4% e far uscire questi animali dal redditometro. Ma avverte: non dipende solo da me, c’è un Moloch che si chiama ministero dell’Economia. Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’Agricoltura con delega all’ippica, nasce democristiano a Bronte, è membro dell’Assemblea regionale siciliana nelle file del Cdu di Rocco Buttiglione, poi aderisce all’Udeur, quindi approda a Forza Italia: nel 2001 è il più votato di Sicilia nelle elezioni regionali. Presidente della Provincia di Catania, parlamentare europeo, deputato eletto nel 2013 nelle liste del Pdl, nel novembre 2013 sceglie di stare con Alfano nel Nuovo centro destra. E nel governo.
Sottosegretario Castiglione, gli allevatori di cavalli accusano la politica di aver ridotto sul lastrico un settore una volta assai prospero.
“Alla politica non bisogna mai far mancare le responsabilità perché ne ha sempre, a priori. Ma, battute a parte, è vero che per anni il settore non ha avuto una pianificazione. Ora dobbiamo intervenire, a cominciare dall’eliminazione degli sprechi. Solo la sede dell’Unire costava quattro milioni e mezzo l’anno. Oggi tutta la struttura dell’ex Unire è all’interno del ministero e risparmiamo 4 milioni e mezzo. Se è sacrosanto che tra i giudici di gara ci sia lo starter, forse però si può fare a meno del vice starter.
Vuol dire che anche la gente di cavalli ha le sue colpe?
“Dico solo che quando le risorse economiche c’erano ci si potevano permettere dei lussi che oggi sono impossibili”.
Nel mondo delle corse si denunciano i ritardi con cui il ministero paga i premi destinati ai cavalli vincenti. Come fa un allevatore a programmare il suo lavoro se deve ancora incassare quanto gli è dovuto per il 2012?
“Eredito una situazione economica molto difficile: i pagamenti dei montepremi erano fermi a due anni fa. Il Parlamento ha varato un piano di rientro che doveva chiudersi entro il 2015. Oggi ci è rimasto solo un trimestre del 2012 da pagare, per il resto siamo in regola con i pagamenti. La fase d’emergenza sta per essere superata con largo anticipo sul previsto”.
Gli allevatori dicono: “L’ippica funziona nei paesi dove funzionano le scommesse”. Da noi cos’è che non funziona?
“Negli ultimi 5 o 6 anni c’è stato un aumento del 400% delle scommesse in Italia e la scommessa ippica invece continua a calare. Perché non si scommette più sui cavalli? Perché il settore non investe o perché gli scommettitori sono attratti da altri sport?”.
Me lo dica lei.
“È la mancata pianificazione di cui parlavo prima. Noi di fronte a una situazione di crisi abbiamo tagliato. La Francia nella stessa situazione ha deciso di investire per difendere un settore della sua economia. È una scelta politica che spetta al Parlamento”.
Il prelievo fiscale sulla scommessa ippica è molto più alto che sugli altri sport. Come mai?
“Per ragioni storiche. Quando l’ippica era ricca, ogni accordo siglato con una categoria (dai fantini agli allevatori) andava a gravare sulla scommessa. Ed essendo molte le categorie dell’ippica, alla fine il prelievo fiscale sulla singola scommessa è diventato abnorme, penalizzando la giocata ippica rispetto alle altre. Il mondo è cambiato e l’amministrazione dei Monopoli di Stato dovrebbe tenerne conto”.
Molte speranze sono riposte nelle delega fiscale, anche se c’è chi la considera una scatola vuota.
“La delega fiscale prevede che il governo dia un nuovo assetto all’ippica. Ci sarà un primo tavolo operativo per rispondere ad alcuni quesiti: ritraendosi lo Stato, il settore è in condizione di finanziarsi autonomamente? Lo Stato deve poter intervenire? Deve esercitare un forma di vigilanza oppure deve lasciare completa autonomia? L’idea è che si possa dar vita ad un ente che coordinerà tutto il settore, gestirà l’evento sportivo e la scommessa. In un ippodromo oltre all’evento ippico si potrebbero vendere altre scommesse per finanziare le corse”.
Che tempi prevede?
“Sappiamo che il settore ha bisogno di risposte urgenti. E stiamo facendo il possibile, anche se non è semplice mettere d’accordo tutti gli attori della filiera: ci sono 70 sigle sindacali che rappresentano il settore e che sono abbastanza litigiose. E poi c’è la burocrazia ministeriale che rallenta le cose”.
Burocrazia? Ma lei è un sottosegretario…
“Le confesso che anche per chi occupa una posizione come la mia è difficile sbloccare certi ingranaggi”.
Redditometro, Iva al 22%. Molti sostengono che i peggiori nemici dei cavalli siano le tasse.
“Penso che anche per i cavalli si dovrebbe adottare la tassazione da attività agricola del 4%. E confesso che ignoravo che i cavalli entrassero nel redditometro. La delega fiscale dovrebbe poter armonizzare tutto questo. Prendo un impegno in tal senso, sapendo però che su questi temi c’è un Moloch che si chiama ministero dell’Economia”.
UN DELITTO CONTRO LO SPORT
C’era una volta un’ippica ricca e felice, nata dalla cosiddetta Legge Mangelli del 1942. Paolo Orsi Mangelli, detto “il conte di nailon” per essere stato tra i primi a capire l’importanza delle fibre sintetiche, era emiliano e irruppe nel trotto con la sua capacità imprenditoriale, come allevatore e proprietario di scuderia. La legge n.315 consisteva in poche righe e avrebbe avuto bisogno di un regolamento di attuazione che non fu mai scritto. Mangelli la concepì d’accordo con Federico Tesio, il mago del galoppo, e riuscì a farla passare per la sua amicizia personale con Benito Mussolini. Quelle poche righe attribuivano all’Unione Nazionale Incremento Razze Equine la possibilità di accettare scommesse sulle corse dei cavalli sugli ippodromi e fuori di essi.
Fu una svolta epocale per uno sport che da sempre viveva di stenti e di passione. Gli ippodromi si attrezzarono con i totalizzatori e con i bookmakers, nacquero le Sale Corse, che furono chiamate poi Agenzie Ippiche e ora Agenzie di scommesse dato che sala corse pareva brutto. I soldi cominciarono ad arrivare a fiumi.
Gli ippodromi erano fatti per la bella gente. A Milano aveva scuderia Luchino Visconti, il quale confessò che si sarebbe dedicato al galoppo se il cinema non lo avesse affascinato di più. Avevano scuderia i fratelli Crespi editori del Corriere della Sera. Avevano un palco come alla Scala nobili, industriali, professionisti di fama, commercianti. Ernest Hemingway ha raccontato un pomeriggio a San Siro in un capitolo di Addio alle armi.
Nel parterre o al prato stava… la plebe, ovvero gli appassionati e gli scommettitori di piccolo cabotaggio, quelli in eterno conflitto con il banco, in esso comprendendo anche i clanda, ovvero i clandestini, persone che tenevano gioco sulla parola e senza autorizzazione ufficiale.
Andare alle corse era vivere una giornata particolare ma un pomeriggio in sala era altrettanto affascinante. Non trovavi i signori, i quali avevano una corsia preferenziale nel senso che giocavano direttamente con il proprietario o con il direttore (quanti clanda mai puniti!) ma tanta varia umanità: giovani e pensionati, italiani e stranieri, tutti competentissimi per cui ogni corsa scatenava discussioni e polemiche. Sì, perché la chiave della scommessa ippica è soprattutto nella convinzione di ogni giocatore di essere più esperto, più furbo e più intelligente degli altri. La Tris, scommessa principe che l’UNIRE di Guido Berardelli e Alberto Giubilo aveva copiato dalla Francia, ora langue nelle agenzie come il parente povero tra i giochi. E pensare che nel momento del suo massimo splendore era stata capace di far nascere una banda in grado di truccare le corse con ingente impiego di capitali!
Tant’è. A questo punto, però, è opportuno un distinguo. L’ippica italiana sta morendo in Italia ma è viva e si fa onore all’estero, dove le nostre scuderie vanno a correre e dove i nostri professionisti, nel trotto e nel galoppo, sono apprezzatissimi (in Francia e in Svezia, soprattutto). E’ merito loro se cavalli come il galoppatore Ribot e il trottatore Tornese, i due che hanno contraddistinto il ventesimo secolo, non siano solo fantasmi del passato e la leggenda di Varenne, il più grande cavallo da corsa di tutti i tempi in Italia, sia ancora da prima pagina grazie al valore dei suoi figli nel mondo.
L’ippica di ieri ha visto in tribuna capi di stato come la Regina Elisabetta, i nostri presidenti Giovanni Gronchi e Antonio Segni e il presidente francese René Coty, politici del calibro di Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Ezio Vanoni, star come Alain Delon, Gina Lollobrigida, Gigi Proietti, Nancy Brilli… L’ippica di oggi raccoglie le briciole: giorni fa solo 3700 spettatori, maledettamente pochi, alle Capannelle per il primo Derby di trotto nel tempio del galoppo. Già, perché Tor di Valle e San Siro sono chiusi e mai più riapriranno. Roma e Milano hanno perduto per sempre i loro ippodromi di trotto. Ciò non è solo il sintomo di una crisi irreversibile ma un delitto contro lo sport, tale che in altri Paesi sarebbe più che sufficiente a giustificare una specie di “processo di Norimberga”. Diciamocelo francamente, all’ippica sono mancati i campioni a due zampe, non quelli a quattro…
Repubblica – 7 novembre 2014