«Quello che è successo, anche in Italia, all’inizio degli Anni 2000, è che per fare un mercato del lavoro più flessibile si sono creati nuovi contratti estremamente flessibili. Immaginate persone che lavorano per 6-7 anni con contratti di un mese come accadeva in Spagna, e in Italia la media poteva essere poco più lunga. Da sé ne viene che cresce l’incertezza dei giovani e si deprime la domanda». Quest’analisi è stata fatta un paio di giorni fa non, come sarebbe plausibile, dal leader della Fiom Maurizio Landini, ma dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, per spiegare alla platea del Brookings Institution, il prestigioso think tank di Washington, la debolezza del mercato del lavoro nel Vecchio Continente. Adesso, con il Jobs act, il disegno di legge delega all’esame del Parlamento, il governo Renzi intende rimediare.
La tesi sottostante alla proposta di riforma è che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, avendo reso quasi impossibili i licenziamenti nelle imprese con più di 15 dipendenti, abbia costretto il sistema a inventarsi nel corso degli anni numerose scappatoie.
I falsi contratti
Decine di forme contrattuali temporanee. Rapporti di lavoro autonomo che in realtà celano rapporti di subordinazione: dalle 400 mila false partite Iva che si stima ancora ci siano, agli associati in partecipazione, a una parte dei 650 mila collaboratori. Per non parlare del lavoro nero, con i suoi 2,8 milioni di addetti. E di quello grigio: per esempio, il part time che nasconde lavori a tempo pieno, con l’azienda che risparmia sui contributi e il lavoratore che quando gli va bene prende il fuori busta.
Solo così, oltre che con gli effetti della crisi, si può infatti spiegare l’esplosione del lavoro a tempo parziale, passato da meno di 3 milioni di addetti nel 2000 a 4,1 milioni nel 2014. Rimuovendo l’articolo 18, almeno per i nuovi assunti, e disboscando allo stesso tempo la giungla contrattuale la situazione dovrebbe migliorare, sostiene il governo. Anche se molti esperti e imprenditori osservano, che il fattore decisivo è un altro. Solo un drastico taglio delle tasse sul lavoro, affermano, potrebbe rilanciare la buona occupazione.
Ma che ci sia una giungla di contratti è innegabile. L’Osservatorio dei Lavori diretto dal professor Patrizio Di Nicola dell’Università La Sapienza ha appena terminato di censire, attraverso il lavoro di Davide Imola, ben 50 forme contrattuali e paracontrattuali (stage, tirocini, dottorandi) sorte nel corso degli anni, concludendo che quelle principali sono attualmente 24. Comunque troppe. Renzi, per ora, promette di cancellare solo le collaborazioni a progetto.
Lo stock e i flussi
Eppure, secondo la direttiva europea 1999/70, «la forma comune dei rapporti di lavoro» dovrebbe essere «a tempo indeterminato». Se si guarda allo stock di lavoratori, l’Italia è in linea. Su 22 milioni e mezzo di occupati, 17 milioni circa sono lavoratori dipendenti e 5 milioni e mezzo indipendenti. Dei 17 milioni di dipendenti, 14 e mezzo sono a tempo indeterminato, cioè l’85%.
Ottimo per la direttiva Ue. Ma il quadro si capovolge se dallo stock passiamo al flusso, cioè se esaminiamo i rapporti di lavoro attivati. Prendiamo gli ultimi dati disponibili, relativi al secondo semestre 2014. In questo periodo sono stati avviati 2.651.648 rapporti di lavoro dipendente e parasubordinato. Di questi, solo 403.036 a tempo indeterminato, cioè appena il 15%. Il resto, l’85% dei casi, sono contratti temporanei. Quindi, per chi entra o rientra nel mondo del lavoro, i giovani ma anche coloro che sono stati licenziati e trovano una nuova occupazione, la forma comune di lavoro è a termine. Sono infatti più di 1,8 milioni i contratti a tempo determinato attivati nel secondo trimestre di quest’anno, cioè il 70%. Al secondo posto ci sono i contratti di collaborazione, il 5,8%, i contratti di apprendistato appena il 3,1%.
Contratti da un giorno
La realtà è, come abbiamo visto, da molti anni, diversa. Ed è ben descritta dalle parole di Draghi. Volete una riprova? Secondo la rilevazione del ministero del Lavoro, nel secondo trimestre 2014, su 2,4 milioni di rapporti di lavoro cessati (fine del contratto, pensione, dimissioni, licenziamenti), solo 381 mila, cioè il 15%, aveva avuto una durata superiore a un anno. Ben 956 mila, cioè il 40%, era durato al massimo un mese. Di questi, in 403.760 casi il lavoro era stato di un solo giorno (il 16,6% del totale), in 170.507 casi di 2-3 giorni.
In sintesi, guardando al flusso (assunzioni-cessazioni) anziché alla fotografia dello stock (lavoratori in servizio), dominano i contratti a termine e di brevissima durata, magari prorogati e rinnovati più volte per anni.
Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che il governo vuole introdurre con il disegno di legge delega appena approvato dal Senato e ora all’esame della Camera, punta a superare questa situazione rendendo il nuovo contratto meno costoso per le aziende rispetto ai contratti temporanei (ma servono diversi miliardi) e senza il vincolo dell’articolo 18 (di regola le aziende potranno licenziare indennizzando il lavoratore). In questo modo il contratto a tutele crescenti dovrebbe diventare la forma prevalente, prendendo il posto del contratto a termine. L’ennesima scommessa su un mercato del lavoro più equo ed efficiente.
Enrico Marro – Il Corriere della Sera – 12 ottobre 2014