di Federico Rampini. Nuovi patti di libero scambio vengono negoziati in gran segreto. Siamo costretti a inseguire fughe di notizie». A lanciare per primo l’allarme è stato Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, uno dei pensatori più ascoltati dalla sinistra americana. Tra i pericoli che Stiglitz denuncia, quello che ci riguarda ha una sigla altrettanto misteriosa dei suoi contenuti. Ttip, non è un acronimo entrato nel linguaggio corrente. Sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Se va in porto, sarà il più ambizioso accordo di libero scambio della storia. Una fase due della globalizzazione, dopo quella che nel dicembre 2001 spalancò alla Cina le porte dell’Organizzazione mondiale del commercio, quindi dei nostri mercati.
In Europa, del Ttip si parla a sprazzi, solo quando viene agitata una minaccia di “veto” per motivi che poco hanno a che vedere coi contenuti di quel patto.
Angela Merkel ha evocato rappresaglie contro il Ttip, per protesta verso lo spionaggio della National Security Agency e della Cia in Germania. Francois Hollande ha fatto lo stesso per tentare di ridurre la maxi-multa americana contro la più grande banca francese, Bnp Paribas. Ma che cosa ci sia dentro la “scatola nera” del Ttip, pochi lo sanno, perfino ai vertici dei governi. Se Stiglitz parla di «segretezza eccessiva», c’è di che far scattare sospetti e diffidenze anche in Europa. Perché dentro le cabine di regia dei tecnocrati, i negoziati avanzano comunque, e le loro conseguenze si faranno sentire sulle economie nazionali, l’occupazione, il livello di tutela dei consumatori. La nuova intesa Usa-Ue su commerci e investimenti riguarda il più vasto mercato del mondo: 45% del Pil mondiale è racchiuso nelle due grandi economie dell’Occidente, l’americana e l’europea.
Tra i fautori più accesi del Ttip figurano Barack Obama e il premier inglese David Cameron, in omaggio all’ideologia liberoscambista che accomuna i Paesi anglosassoni. La U. S. Chamber of Commerce che è una specie di Confindustria, fa la stima seguente: se va in porto, farà salire di 120 miliardi di dollari il volume degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico. Quindi potrebbe dare una spinta alla crescita globale, e soprattutto a quella dell’Eurozona che ne ha un gran bisogno. I calcoli del Centre for Economic Policy Research di Londra, fatti propri dalla Commissione di Bruxelles, dicono che da un simile accordo l’Unione dei 27 ci guadagnerebbe 120 miliardi di euro di reddito in più all’anno, l’America 95 miliardi. L’export europeo salirebbe del 28%, nel lungo periodo. Due milioni di posti di lavoro in più, è la stima ventilata da Cameron. 545 euro all’anno per la famiglia media in Europa, è il vantaggio stimato da Londra: molto più di quel che il governo Renzi ha potuto fin qui aggiungere alle buste paga.
Ma uno studio dell’economista Dennis Novy, disponibile sul sito La-Voce.info, ci ricorda che le medie sono sempre ingannevoli. Il vero nodo, spiega Novy, è capire chi sarebbero i vincitori e i perdenti. Il Ttip interverrà non tanto sui dazi (già ridotti dalle liberalizzazioni precedenti) quanto sulle barriere non tariffarie. Cioè normative che ostacolano la libera circolazione delle merci. Un settore che ne ricaverebbe soprattutto vantaggi è l’automobile, dove troppi standard di sicurezza dissimili tra le due sponde dell’Atlantico frenano l’export. Tra quelli che rischiano di perderci, sempre nell’analisi di Novy, c’è l’agricoltura mediterranea almeno in quei settori che hanno goduto di sostegni.
Una partita molto delicata riguarda la sicurezza alimentare. Cioè la salute dei consumatori. Non solo ogm: in molti comparti dell’alimentazione ormai il consumatore europeo è protetto da regole più severe rispetto all’americano. Anche se in certi casi la salute diventa un alibi: tanti prodotti genuini della filiera made in Italy hanno sofferto “inique sanzioni” all’ingresso in America, per normative sanitarie che coprivano precisi interessi dei produttori locali. Il Ttip può aprire il ricco mercato nordamericano a tanti prodotti italiani ancora in lista d’attesa.
Ma chi garantisce che l’esito sarà davvero quello? Il problema del Ttip è che coincide con una fase di ripensamento critico sulla globalizzazione, di riflussi nazionalisti, e in particolare una diffusa “sfiducia nella delega” verso i tecnocrati europei. Il nuovo Europarlamento sarà un interlocutore coriaceo. In America la questione s’intreccia con le nuove normative sui mercati finanziari, soprattutto la legge Dodd-Frank che ha stabilito limiti e controlli più severi sulla finanza speculativa. Dentro il Ttip è previsto un arbitrato per dirimere conflitti fra gli Stati e i grossi investitori. Come dimostra l’affaire Bnp Paribas e la furia francese contro la maxi-multa, è un altro terreno minato. Obama vorrebbe che questa globalizzazione 2.0 nascesse all’insegna di garanzie sociali, clausole sui diritti dei lavoratori, e regole a tutela dell’ambiente. Per lui il Ttip deve servire da modello ad un analogo patto trans-Pacifico dal Giappone all’Australia, con cui mettere alle strette la Cina e ogni forma di concorrenza sleale. Stiglitz ha dei dubbi: «Molte regole esistono proprio per proteggere i lavoratori, i consumatori, l’ambiente. E furono decise in risposta a una domanda democratica. Nei patti segreti per la de-regolamentazione rischia di riaffiorare una gara al ribasso».
Obama vorrebbe firmare l’accordo prima della fine del suo mandato. Altrimenti a vararlo potrebbe essere Hillary Clinton: ironia della sorte, la moglie del presidente che avviò la prima globalizzazione, attraverso il Nafta (mercato unico dal Canada al Messico) e l’avvio dei negoziati con la Cina.
Repubblica – 21 luglio 2014