Il governo Renzi fa il lifting alle Province. Trasformandole in enti di secondo livello e snellendone le funzioni a partire dal 2015. A prevederlo è il disegno di legge Delrio che ha incassato ieri la fiducia del Senato (con 160 sì e 133 no) e che passa ora alla Camera per il terzo e probabilmente definitivo via libera parlamentare. Il ddl peraltro impedirà il rinnovo dei consigli provinciali in scadenza. L’ok dell’assemblea di Palazzo Madama su un testo, che a detta del relatore Francesco Russo (Pd) «porterà un risparmio iniziale di oltre 150 milioni di euro e prevede un taglio di oltre 3000 indennità», è arrivato al termine di una giornata tutto sommato tranquilla. Con il governo e la maggioranza – salvo rare eccezioni ad personam come Maurizio Rossi e Tito Di Maggio (entrambi di Pi) – impegnati a difendere la bontà del provvedimento e la minoranza e l’Upi convinte nel sostenere che la riforma non produrrà alcun beneficio. Anzi.
Con una polarizzazione che si è ripetuta anche nelle reazioni post-voto.
Un quadro comunque ben diverso da quello che si era invece presentato martedì quando in commissione erano passati due emendamenti dell’opposizione e in aula stavano per essere approvate le pregiudiziali di costituzionalità avanzate dal M5S. Due avvenimenti che hanno convinto l’esecutivo a “blindare” il testo come annunciato nell’emiciclo dal ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. L’unico fuori programma si è avuto qualche ora dopo quando sono arrivati i rilievi della commissione Bilancio che hanno costretto il governo a un ritocco del maxiemendamento posto poi al voto dell’assemblea. In quella sede sono stati accolti anche tre emendamenti del presidente della V commissione Antonio Azzollini (Ncd) per specificare meglio la gratuità di tutti gli incarichi che riguarderanno Province e città metropolitane.
Le Province si svuotano
In attesa che la riforma costituzionale più volte annunciata elimini dagli articoli 114 e seguenti della carta fondamentale il riferimento alle Province, il ddl Delrio ne cambia i connotati. Facendole diventare enti di secondo livello imperniati su tre organi: il presidente, che sarà il sindaco del comune capoluogo; l’assemblea dei sindaci, che raggrupperà tutti i primi cittadini del circondario; il consiglio provinciale, che sarà formato da 10 a 16 membri (a seconda della popolazione) scelti tra gli amministratori municipali del territorio. Oppure tra i membri uscenti degli enti in scadenza quest’anno a cui il provvedimento ha lanciato una curiosa “ciambella di salvataggio”. Per nessuno di questi organi è previsto un compenso. Così come non percepiranno alcuna indennità né i 52 presidenti di Provincia che sarebbero scaduti in primavera e né i 21 commissari in carica per effetto della legge di stabilità fino al 30 giugno. Fino all’inizio del 2015 quando le Province 2.0 s’insedieranno saranno questi organi a supplire al consiglio provinciale mentre gli assessori resteranno al loro posto. Sempre fino a fine 2014 e sempre a costo zero. Al tempo stesso cambieranno le funzioni degli “enti di mezzo”. Mentre su trasporti, ambiente e mobilità avranno la semplice pianificazione, sull’edilizia scolastica manterranno la gestione e cominceranno a occuparsi anche di pari opportunità. Tutte le altre competenze passeranno ai Comuni a meno che le Regioni non preferiscano tenerli per sé. E lo stesso percorso seguiranno il personale e il patrimonio.
Via alle città metropolitane
Il secondo pilastro del provvedimento è rappresentato dalla nascita, a oltre 20 anni dalla loro ideazione, delle prime 10 Città 7È lo status delle nuove province, che cambiano la modalità d’elezione degli organi, che non è più diretta ma diventa un’elezione di secondo livello. Il presidente verrà votato infatti dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia, resta in carica quattro anni, e deve essere a sua volta un sindaco. È eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti. La novità dell’ultima versione del Ddl licenziato ieri è che in caso di parità di voti è eletto il candidato più giovane metropolitane che sostituiranno, sempre a partire dal 1?gennaio 2015, altrettante amministrazioni provinciali. Si tratta di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Roma capitale (con poteri speciali per effetto del suo ruolo), Napoli e Reggio Calabria (che partirà però nel 2016). Laddove è stato scongiurato, per effetto di un emendamento approvato la settimana scorsa in commissione Affari costituzionali, il rischio di arrivare a 21 che era insito nel ddl uscito da Montecitorio prima di Natale. Anche nelle città metropolitane gli organi saranno tre: il sindaco metropolitano, che sarà quello del Comune capoluogo a meno che lo statuto non preveda l’elezione diretta; il consiglio metropolitano, che sarà formato da 14 a 24 membri (a seconda della popolazione) scelti tra i sindaci e i consiglieri comunali del territorio; la conferenza metropolitana, che raggrupperà tutti i primi cittadini del circondario. A differenza delle Province le città metropolitane avranno dei compiti “pesanti”. Oltre a quelli rimasti agli enti di area vasta si occuperanno infatti della pianificazione territoriale generale, ivi comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture, dell’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano, della viabilità e mobilità e dello sviluppo economico.
Le unioni di Comuni
Un terzo e ultimo gruppo di norme interessa invece i municipi. Rinviando agli altri articoli pubblicati nella pagina accanto per gli ulteriori dettagli in questa sede va segnalata soprattutto la scelta di consentire ai Comuni fino a 3mila abitanti di derogare alla regola che prevede per il sindaco un massimo di due mandati consecutivi. Portando tale tetto a tre. Al tempo stesso vengono ampliati di circa 24mila unità i posti a disposizione nei Comuni. Fino a 3mila abitanti avranno infatti un sindaco, 10 consiglieri e massimo due assessori (ora hanno solo sindaco e sei consiglieri) mentre nella fascia 3mila-10mila abitanti ci saranno un sindaco, 12 consiglieri e al massimo 4 assessori. Tutti incarichi per i quali non verrà comunque corrisposto alcun compenso.
L’abolizione definitiva
Bisognerà infine aspettare oggi per sapere se la stessa assemblea di Palazzo Madama voterà la procedura d’urgenza caldeggiata dal M5S sul ddl costituzionale che elimina le Province dalla Costituzione. Un’accelerazione che anche la maggioranza sembra condividere così da riuscire a completare il percorso avviato con il ddl Delrio.
Taglio di 111 milioni ma più incarichi. Con la riforma a regime nei piccoli Comuni quasi 24mila posti in più tra consiglieri e assessori
La rinnovata architettura dei municipi tra 3mila e 5mila abitanti non dovrà produrre nuovi costi per le indennità
Il conto economico segna qualche risparmio, non del tutto certo, a breve termine, e promette ristrutturazioni più profonde nel tempo senza però poterne quantificare i frutti. Il conto della politica, invece, registra il tramonto di 2.159 poltrone provinciali quest’anno, e di altre 751 nel 2015 e 2016, ma (ri) apre la porta a tanta politica locale nei piccoli Comuni: 15mila posti in più da consigliere e assessore con le amministrative di maggio, se l’ultima tappa a Montecitorio andrà avanti senza intoppi a ritmi accelerati, e quasi 24mila a regime, rispetto ai tetti della legge attuale. Va da sé che un confronto fra un assessore provinciale e un consigliere di un piccolo Comune è improponibile, perché il costo di questi ultimi è ultra-leggero per natura e perché la riforma impone agli enti locali di non aumentare le indennità. Semmai, nel caso dei piccoli Comuni è possibile parlare di mancati risparmi, perché il cambio di regole proposto dalla riforma delle Province eviterà ai 3.478 piccoli Comuni attesi alle urne il 25 maggio nelle Regioni ordinarie di applicare i tagli a giunte e consigli previsti nel 2011, quando la manovra-bis di Ferragosto nata sull’onda della crisi dello spread decise con alterne fortune di sforbiciare tutta la politica locale, dal più piccolo Comune alle Regioni. In questi Comuni, insomma, sono in gioco numeri piccoli, ma sul piano dei conti pubblici i numeri piccoli sono al momento la caratteristica della riforma: che, nelle intenzioni del Governo, è solo la prima tappa di un riordino più profondo, che passa dalla riforma costituzionale.
Il conto complessivo dei risparmi a breve segna 111 milioni in meno per indennità e gettoni e 318,7 milioni per le mancate elezioni provinciali: con l’ultima versione del maxiemendamento votato ieri, il conto può salire ancora perché impone la gratuità alle giunte e ai consigli provinciali che sopravvivono e ai commissari e sub commissari chiamati a gestire gli enti dove gli “eletti” hanno già ceduto il passo. Si arriva, insomma, vicini a 500 milioni di euro, ma il risultato è tutt’altro che scontato: la scomparsa delle indennità, come sottolinea il servizio Bilancio del Senato, non si traduce in tagli alle Province, che quindi possono decidere di usare in altro modo i 111 milioni «rinunciando al potenziale risparmio». Lo stesso accade per i 200 milioni per le mancate spese delle elezioni provinciali (gli altri 118 sono a carico dello Stato: ma la contemporaneità con le Europee dovrebbe alleggerire il conto), e secondo i tecnici di Palazzo Madama qualche ombra circonda anche la voce «zero» ai costi della politica (i consiglieri provinciali hanno raccolto 16 milioni di euro in rimborsi spese nel 2012) e la redistribuzione dei compiti tra livelli di governo potrebbe costare qualcosa in assenza di «specifica clausola di invarianza finanziaria».
A sparire sicuramente sono invece le poltrone da consigliere o assessore provinciale sopravvissute finora ai tentativi di riforma avviati nel 2012, che hanno dato il via alla catena dei commissariamenti. Come accennato, 2.159 tramonteranno entro la fine di settembre, altre 156 usciranno dal gioco l’anno prossimo e le ultime 595 (da Mantova a Pavia, da Vercelli a Reggio Calabria passando per Treviso, Ravenna, Lucca, Macerata e Campobasso) sono per ora destinate a sopravvivere fino al 2016 come una sorta di “fossile istituzionale”, a meno di improbabili accelerazioni da inserire nella riforma costituzionale. Attenzione, però: non questi numeri sono da attribuire alla riforma votata ieri, perché circa un politico provinciale su cinque sarebbe comunque caduto sull’altare dei tagli a giunte e consigli introdotti nel 2011.
Proprio questi tagli, invece, si riducono fin quasi a scomparire per i piccoli Comuni, in cui entrano in campo, o più spesso evitano di uscirne, 23.606 consiglieri e assessori, 14.928 dei quali già a partire dalle amministrative di maggio. La riforma (comma 135 nel maxiemendamento; ma si veda anche il Sole 24 Ore del 24 marzo) reintroduce le giunte nei Comuni fino a mille abitanti, riamplia quelle previste nella fascia 3.001-5.000 abitanti e allarga tutti i consigli comunali fino a 10mila abitanti. La riforma chiarisce che la nuova architettura di giunte e consigli non deve produrre nuovi costi per le indennità, perché le amministrazioni dovranno «assicurare l’invarianza della spesa in rapporto alla legislazione vigente». Una legislazione, però, che nell’ampia maggioranza dei Comuni non si è mai tradotta in pratica, perché i tagli 2011 si sarebbero applicati solo ai rinnovi: il maxi-turno amministrativo (3.478 piccoli Comuni nelle Regioni a Statuto ordinario; 4.099 Comuni su 8.094 in totale) è in programma a maggio, e salvo casi eccezionali di enti rinnovati da poco e già caduti la loro composizione attuale risale a prima della manovra di tre anni fa.
Il Sole 24 ore – 27 marzo 2014