II governo Renzi è pronto a schierare la sua potenza di fuoco e di novità contro la burocrazia che incista i gangli dello Stato. Prendendo di mira per primi quanti saranno chiamati, nelle prossime ore, a insediarsi nei nuovi “uffici di diretta collaborazione” dei ministri, ritenuti dall’ex sindaco di Firenze parte del problema: lentezze, imbuti, tappi. Parliamo di capi di dipartimento, capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi, in primis. Snodi reali del potere romano e altissime competenze, in grado di condizionare l’iter di formazione delle leggi, stravolgerne il dettato, allungandone non di rado l’applicazione con decreti attuativi diventati ormai il vero termometro delle riforme (anche perché spesso scritte male). A tutto questo, alle eminenze grigie, ai mandarini e agli altissimi burocrati, Renzi è pronto a mettere un freno.
Così, prima ancora di delineare la già annunciata riforma della Pubblica amministrazione per il mese di aprile— dunque la mobilità dei dirigenti e il loro incarico a tempo – è deciso a dare un segnale sin da subito, in uno dei primissimi Consigli dei ministri. Con un decreto legge, vorrebbe lui. Con una direttiva formale o una forte “indicazione”, gli suggeriscono più prudentemente i suoi, per tenere fuori dall’imminente spoil system, il valzer delle poltrone ministeriali che contano, i Consiglieri di stato e i magistrati del Tar. Così da rompere un corto circuito dannoso per l’Italia e per l’azione del governo. Il terreno è scivoloso, i meccanismi delicati.
Ma se il buon giorno si vede dal mattino, l’intenzione di Renzi è ben confermata dalla prima nomina fatta da Graziano Delrio, neo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, di Mauro Bonaretti, già suo capo di gabinetto al ministero degli Affari regionali e prima ancora city manager a Reggio Emilia.
Sarà segretario generale di Palazzo Ghigi, al posto di Roberto Garofoli, ex capo di gabinetto di Filippo Patroni Griffi alla Funzione Pubblica. Entrambi, Garofoli e Patroni Griffi, consiglieri di Stato. Nel governo Letta 20-25 posizioni di spicco erano ricoperte proprio dai giudici amministrativi, che ora Renzi vorrebbe rottamare. A parte Giustizia, Difesa, Esteri, Interno dove i rispettivi capi di gabinetto sono per prassi un giudice ordinario, un militare, un ambasciatore e un prefetto, gli altri i ruoli sono “aperti”. E spesso affidati a consiglieri e avvocati di Stato. Tra i consiglieri, c’erano Goffredo Zaccardi (Sviluppo Economico). Oltre a Patroni Griffi (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Carlo Deodato. Sempre consigliere di Stato, anche Alfredo Storto (capo del Come pure, in altra casella — quella di viceministro allo Sviluppo Economico – Antonio Catricalà, già segretario generale e sottosegretario a Palazzo Ghigi, nonché presidente Antitrust. Ruolo, quello di viceministro che molti (a destra) vorrebbero riconfermare ora con la Guidi. A rischio potenziale anche Francesco Tomasone, potente capo di gabinetto con moltissimi ministri del Lavoro, sin da Giugni (capo del legislativo con Treu), confermato da Giovannini, e da molti ritenuto corresponsabile del pasticcio esodati. Anche lui consigliere di Stato. Senza contare Mario Alberto di Nezza, capo gabinetto alla Sanità (con un passaggio precedente all’Economia), però magistrato Tar. Mentre Giacomo Aiello, stesso ruolo alle Infrastutture, è avvocato dello Stato.
E questo solo per parlare delle funzioni apicali. Tutti magistrati, in molti casi affezionati alle porte girevoli che ora Renzi vuole chiudere. La partita chiave si giocherà però da un’altra parte, in via Venti Settembre, al ministero dell’Economia. Lì non ci sono magistrati, ma la macchina è ingolfata. E comunque avvezza a seguire una propria linea politica, a prescindere dal governo. Dopo l’era del potentissimo Vincenzo Fortunato, per decenni capo di gabinetto, l’attuale Daniele Cabras (funzionario parlamentare) è dato in uscita. Alla Ragioneria, Daniele Franco (ex Bankitalia), è ancora vissuto come corpo estraneo. La difficile alchimia spetterà ora a Pier Carlo Padoan. Mentre il premier Renzi dopo aver rottamato, dovrà anche rimpiazzare. E questa è tutta un’altra storia.
La Repubblica – 24 febbraio 2014