La sicurezza nel piatto non è solo uno slogan per l’industria alimentare che vale circa il 16% del Pil nazionale. L’agroalimentare, la sua filiera e i mercati concatenati rappresentano la seconda industria, dopo la metalmeccanica, con 130 miliardi di fatturato (+2,3% rispetto al 2011), oltre 400 mila addetti e 6.250 imprese con più di nove dipendenti (dati Federalimentare relativi al 2012). La sicurezza e la garanzia di qualità — non sempre il made in Italy è sinonimo di perizia — rappresentano un passaporto indispensabile per il mercato, nazionale o internazionale che sia. Soprattutto quando la destinazione finale è l’estero. I prodotti italiani contribuiscono, infatti, per circa 8% al totale dell’export nazionale (24,8 miliardi di fatturato nel 2012, +8% rispetto al 2011), con quote ogni anno crescenti. Numeri su cui si confronteranno dal 15 al 17 ottobre 97 relatori in 15 convegni a Milano, Roma e Napoli. Il programma
Un risultato eccellente se si pensa che le imprese italiane concorrono su un mercato globale estremamente competitivo: il settore alimentare solo in Europa è il primo settore industriale che fattura oltre mille miliardi.
Numeri che coincidono con esigenze, quelle dei cittadini, di poter acquistare la merce in piena tranquillità. Una tappa di avvicinamento all’Expo 2015, (il tema è «Nutrire il pianeta, energia della vita») è il Salone internazionale della ricerca, innovazione e sicurezza alimentare in cui 97 relatori si confronteranno in 15 convegni a Milano, Roma e Napoli (dal 15 al 17 ottobre 2013). «In questa tre giorni — spiega l’ideatore del salone Andrea Mascaretti — cercheremo di sviscerare tutti i temi connessi alla sicurezza: l’innovazione, le normative, l’evoluzione del mercato, la tutela dei consumatori, la qualità e certificazione delle imprese anche artigianali del settore e i prodotti made in Italy ».
Ma il cibo italiano è davvero sicuro? «L’Italia è considerata un’eccellenza nel campo dei controlli. Ciò non significa che basta il marchio “fatto in Italia” per garantirne la qualità — commenta Franca Braga, responsabile alimentazione e salute di Altroconsumo — ma sicuramente è maggiore la possibilità che le eventuali frodi alimentari vengano smascherate prima che i cibi raggiungano la tavola. Stupisce invece, e sono dati dell’Eurobarometro, che il 19% degli intervistati italiani siano più preoccupati della presenza di pesticidi che della cattiva igiene dei luoghi in cui vengono conservate alcune derrate alimentari».
Pulizia e corretta conservazione, nel tempo: «il consumatore va tutelato a 360 gradi — commenta Amina Ciampella, presidente di Otall, l’Ordine dei tecnologi alimentari, Lombardia e Liguria — e così la sua protezione da insidie per la salute. Non si può valutare solo un aspetto della filiera produttiva, tant’è che uno dei settori di punta della ricerca nazionale è legato allo studio di tecnologie e soluzioni che consentano di garantire la durata del prodotto nel tempo».
Valutazioni che valgono per gli alimenti che realmente vengono coltivati e allevati sul territorio nazionale, ma che in realtà possono sfuggire nel momento in cui vengono importati: tonnellate di grano duro vengono acquistate e portate in Italia dai Paesi del centro nord America e quintali di pomodori che arrivano da Israele o dal Marocco.
«La Lombardia, la prima regione agricola italiana, non si può permettere falle nella sicurezza — aggiunge l’assessore regionale alla Salute, Mario Mantovani — né nell’import né nell’export che vale oltre 1,5 miliardi. Per accrescere la protezione da un anno a questa parte le norme nazionali che regolano le importazioni alimentari sono state rese più restrittive e sono stati imposti più controlli doganali».
Il che comporta costi che si vanno ad aggiungere a due altri fenomeni, questa volta di natura estera, che «affliggono i nostri prodotti — conclude Luigi Scordamaglia, consigliere incaricato di Federalimentare per l’Internazionalizzazione —, la contraffazione dei prodotti nazionali e l’italian sounding (brand che riecheggiano nomi del made in Italy, il famoso Parmisan al posto del parmigiano n.d.r. ) innescando un giro di affari pari a 60 miliardi di euro, oltre due volte il valore dell’export alimentare nazionale ».
Nessuna sorpresa nel piatto per gli investigatori del Dna
Ricerca e impresa insieme per evitare le sofisticazioni. Hanno portato la fantascienza nelle stalle e ne vanno fieri. Perché oggi, anche grazie a loro, un allevatore di un piccolo paese della campagna lombarda con 20 euro può scoprire i dettagli genetici dei suoi animali e capire come farli produrre di più e meglio. 7
In fondo, quando è nato, nel 2005, il Parco Tecnologico Padano di Lodi aveva proprio questo obiettivo: trasferire il valore della ricerca e dell’innovazione verso il mercato, in particolare agroalimentare. Gianluca Carenzo, 41enne direttore generale della struttura, ripete questa fase come se fosse un mantra. Manager del settore farmaceutico, ha lavorato per diverse grandi aziende prima di approdare dieci anni fa nel centro alle porte di Lodi. «Questo è un polo universitario sostenuto dalla regione Lombardia, dagli enti locali e dall’università di Milano — spiega — . Siamo l’unico parco scientifico agroalimentare del Nord Italia e lavoriamo fianco a fianco con il mondo produttivo». L’edificio che ospita il Parco si affaccia su via Einstein, poco lontano dalle stalle della sede distaccata dell’università di veterinaria di Milano. L’atrio è enorme e ricorda l’ingresso di certi musei europei. Intorno si irradiano i laboratori, suddivisi per piani, efficienti e moderni. Al primo piano c’è la piattaforma di genomica, che al momento è il cuore della struttura. Perché questo centro ha portato all’estremo il concetto del Dna controllato declinandolo in una serie di possibili applicazioni pratiche. «Siamo gli unici in Italia che estraggono il dna da un chicco di riso e ti sanno dire a quale varietà appartiene — dice orgoglioso Carenzo —. In questo modo aiutiamo le aziende sul fronte della tracciabilità e del mantenimento della qualità».
Dopo che una farina è passata sotto gli occhi dei ricercatori di Lodi, ad esempio, possiamo sapere se è davvero al 100% di kamut, come sostiene l’etichetta della sua confezione, o scoprire se il produttore voleva venderci qualcosa di meno puro. «Qui ricaviamo il dna di animali e vegetali: di recente ci siamo occupati di analisi su campioni molto diversi tra loro — racconta Valentina Gualdi, 38 anni, veterinaria con un master in bioinformatica, che coordina la piattaforma di genomica —. Abbiamo analizzato il macinato degli hamburger per controllare se ci fosse carne equina e ne abbiamo isolato il Dna; abbiamo valutato il ripieno di lasagne e tortellini dalle indicazioni sospette; poi ci siamo soffermati sulle scatolette di tonno, per certificare che non ci fossero state frodi alimentari». Con lei lavorano altre sette specialiste donne e un solo uomo, tra provette e robot che eseguono operazioni sorprendenti. «Questa macchina — dice Gualdi indicando un parallelepipedo di vetro e acciaio che all’interno presenta contenitori di vari colori, con forellini e zigrinature — estrae il Dna e poi lo amplifica, cioè lo riproduce tante volte in modo da darci la possibilità di lavorare meglio sulla sua sequenza e isolarne i dettagli. In media tratta 96 campioni alla volta in mezz’ora per l’estrazione, mentre un ricercatore avrebbe bisogno di molto più tempo».
La tecnologia riduce tempi e costi. E non è poco: al Parco si eseguono milioni di estrazioni all’anno. Attraverso le analisi fatte in questo laboratorio, che ha tre stanze separate con caratteristiche diverse, dalle temperature stabilizzare a criteri di sterilità, si riesce a smascherare le sofisticazioni e le frodi alimentari, a scoprire malattie pericolose, ad assicurare la tracciabilità di un prodotto fin dalla sua origine, a verificare la resistenza a malattie o alla siccità. Alla piattaforma genomica di Lodi si studiano, a volte, anche gli essere umani: «Ci sono aziende che hanno laboratori, ma per il Dna si rivolgono a noi — dice Carenzo —. Per loro è più conveniente e sicuro». Il Parco Tecnologico Padano, che ha circa 60 dipendenti, lavora infatti su tre diverse direttrici. «Da una parte c’è la ricerca, che si sviluppa all’interno del suo mercato, attraverso la ricerca di fondi a livello europeo — sottolinea Carenzo —. Negli ultimi tre anni qui abbiamo portato avanti 22 progetti per 9 milioni di finanziamento studiando aspetti innovativi, come l’analisi di ciò che accade nel rumine di una mucca per migliorare la sua dieta». Il secondo settore di impegno è quello dei servizi, con le ricerche eseguite per aziende e allevatori, ma anche con il supporto alla preparazione di progetti di sviluppo e all’elaborazione di business plan per il rilancio delle piccole realtà in questo periodo di crisi. «Infine c’è tutto l’aspetto delle imprese che si appoggiano a noi — insiste il direttore —. Al momento ce ne sono quindici che lavorano direttamente all’interno del polo, mentre 50 sono esterne ma hanno contratti di consulenze. Dal 2007 ad oggi, però, sono 27 le aziende che hanno visto la luce qui».
La parola d’ordine è che «la ricerca si fa impresa» e il giro d’affari annuale di 6 milioni di euro spiega la definizione. «Dai laboratori si passa allo sviluppo, al mercato, al concreto — conclude Carenzo — . Vogliamo essere competitivi per essere attrattivi». Detto e subito fatto: al Parco arrivano giovani studiosi di diversi Paesi per specializzarsi, ma di recente ha chiesto ospitalità anche Flowmetric, multinazionale americana che cercava un appoggio in Italia e nel polo di Lodi ha trovato lo spazio ideale.
Il Corriere della Sera – 14 ottobre 2013