La norma centrale del nuovo articolo 18 è il comma 6 dal quale è necessario partire per fare corretta applicazione della nuova disciplina dei licenziamenti individuali. Tale disposizione non contiene un’ipotesi residuale, come spesso viene ritenuto (un rimedio per gli errori formali), ma principale poiché sanziona l’inadempimento del datore di lavoro alla sua fondamentale obbligazione che è quella di motivare il licenziamento (articolo 2 della legge 604/1966) e di farlo rispettando specifiche procedure (articolo 7 dello Statuto dei lavoratori e articolo 7 della legge 604/1966). Tale norma prevede, infatti, che il licenziamento senza motivazione o senza la preventiva contestazione disciplinare o senza la procedura preventiva nel caso di licenziamento per motivo oggettivo, sia «inefficace».
È interessante notare che tale sanzione era prima prevista anche in caso di mancanza di forma scritta, vizio oggi giustamente qualificato come nullità e spostato al primo comma. Quindi, se il licenziamento è intimato soltanto oralmente il lavoratore ha diritto alla reintegrazione.
Ma quid iuris se il licenziamento è in forma scritta e non contiene alcuna motivazione (per esempio: le comunichiamo il suo licenziamento da oggi)? In questo caso, per espressa previsione legislativa – il sesto comma appunto – il licenziamento è inefficace a meno che il datore di lavoro non riesca a provare che esista un motivo reale, pur non espresso nella lettera di licenziamento. La grande novità è che, pur in carenza di una motivazione contestuale al licenziamento (o in mancanza del corretto e completo svolgimento delle procedure di irrogazione), il datore di lavoro possa sempre provare che lo stesso sia giustificato. Provarlo in giudizio, ed è per questo che la nuova fase preliminare non prevede decadenze ed è quindi diversa da quella successiva di opposizione, e non una mera inutile replica. Ma, anche qualora lo provi, il lavoratore avrà comunque diritto a una somma a titolo di risarcimento del danno compresa tra le 6 e le 12 mensilità, conseguente all’inadempimento posto in essere dal datore di lavoro, da determinarsi in relazione alla gravità dell’inadempimento stesso, come espressamente prescrive la norma.
Continuiamo con l’esempio. Il lavoratore che riceva la lettera di licenziamento sopra ipotizzata ha due possibilità. La prima è ricorrere al giudice, senza voler sapere il motivo di licenziamento (può accadere) ma soltanto per ottenere il risarcimento del danno. Assai probabilmente, il giudice gli riconoscerà l’importo massimo di 12 mensilità, mancando completamente la contestualità della motivazione.
Se, invece, il lavoratore vuole conoscere la motivazione, chiederà in via principale la reintegrazione e in via gradata il riconoscimento di una somma compresa tra le 12 e le 24 mensilità e in via ulteriormente gradata una somma compresa tra le 6 e le 12 mensilità. A questo punto, il datore di lavoro si costituisce in giudizio e fornisce la prova documentale del fatto che ha portato al licenziamento oppure chiede di essere ammesso a provarlo. Il giudice dovrà consentirgli di farlo, trattandosi di un atto di istruzione indispensabile, così come dovrà concedere un termine al lavoratore per replicare e ulteriormente dedurre.
Possono così presentarsi quattro situazioni:
a) il datore di lavoro non riesce a provare il fatto che sostiene il licenziamento: il lavoratore verrà reintegrato;
b) il datore di lavoro prova il fatto ma esso è sanzionato dalla contrattazione collettiva solo con una sanzione conservativa: il lavoratore verrà, ancora, reintegrato;
c) il datore di lavoro prova il fatto ma il giudice ritiene che la sanzione sia sproporzionata: anche se non sussiste quindi né la giusta causa né un notevole inadempimento, il licenziamento resta valido, ma il lavoratore è compensato con un risarcimento del danno compreso tra 12 e 24 mensilità, in relazione all’anzianità di servizio, alle dimensioni aziendali e al comportamento delle parti;
d) il datore di lavoro prova il fatto e il giudice ne riconosce l’esistenza e la gravità e quindi la ricorrenza o di una giusta causa o di un giustificato motivo, ma riconoscerà al lavoratore comunque l’indennità tra 6 e 12 mensilità.
Ma ciò che non dovrà succedere è che il giudice, di fronte a un licenziamento comunicato per iscritto ma senza motivazione o privo della lettera di contestazione o con una lettera di contestazione fatta male, possa ordinare la reintegrazione ricorrendo al falso sillogismo: mancanza di motivazione contestuale o mancanza o erroneità della contestazione uguale all’insussistenza del fatto.
La giurisprudenza di questi ultimi giorni, infatti, ha riconosciuto: in un caso di tardività della contestazione dei fatti, 9 mensilità; per la omessa allegazione alla lettera di contestazione dell’indagine investigativa su cui si fondava, 12 mensilità; per la mancanza dei riferimenti temporali relativi ai fatti contestati nella lettera di contestazione, 8 mensilità. Indubbiamente una rivoluzione copernicana.
Il Sole 24 Ore – 27 luglio 2013