Anche grazie agli effetti dell’ultima riforma, varata a fine 2011, la spesa per pensioni in rapporto al Pil può dirsi sotto controllo. Ma alla sostenibilità del sistema, che mostra una buona tenuta soprattutto rispetto alla transizione demografica negativa, corrisponderanno in futuro assegni più leggeri. Lo rivela il Rapporto della Ragioneria generale dello Stato sulle tendenze di medio periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, pubblicato ieri. Tra i più potenti stabilizzatori della spesa pensionistica il rapporto ricorda l’aumento dei requisiti di pensionamento per vecchiaia e la chiusura delle uscite per anzianità, il passaggio pro quota al contributivo come criterio unico di calcolo delle pensioni e l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione.
La gobba prodotta dalla crisi. Dopo un fase iniziale di crescita della spesa «esclusivamente imputabile alla recessione economica e che è prevista proseguire anche nel 2013» si legge nel corposo Rapporto della Ragioneria, la spesa per pensioni in rapporto al Pil flette gradualmente fino a raggiungere il 14,8% nel 2029. Negli anni successivi, seguirà una nuova fase di crescita che porta il rapporto al suo massimo relativo, pari a circa il 15,6%, nel triennio 2044-2046. Da qui in poi si scende rapidamente, con un rapporto che si attesta al 15,3% nel 2050 ed al 13,9% nel 2060, con una decelerazione pressoché costante.
L’Italia farà meglio degli altri paesi europei. Infatti, a fronte di un valore della spesa pensionistica che cresce in media, per l’insieme dei paesi dell’UE (e la Norvegia), di 1,4 punti percentuali nel periodo 2010-2060, nel nostro caso il rapporto scende di 0,9 punti percentuali, e questo nonostante il più forte invecchiamento demografico e le più elevate aspettative di vita.
Effetto riforma Fornero Tra i più potenti stabilizzatori della spesa pensionistica il rapporto ricorda l’aumento dei requisiti di pensionamento per vecchiaia e la chiusura delle uscite per anzianità, il passaggio pro quota al contributivo come criterio unico di calcolo delle pensioni e l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione. Tra le altre misura con effetti diversi e, quindi, in parte anche di incremento della spesa, sono citati: l’innalzamento graduale dell’aliquota contributiva e di computo dei lavoratori parasubordinati esclusivi al 33%, entro il 2018, e quella dei parasubordinati non esclusivi (pensionati o lavoratori con altra iscrizione) al 24% entro il 2016, le disposizioni di tutele dei lavoratori salvaguardati e le misure di agevolazione in materia di cumulo di periodi assicurativi presso differenti gestioni previdenziali.
Tassi di sostituzione in calo Sul fronte dell’adeguatezza delle prestazioni, il Rapporto della ragioneria conferma le previsioni di lungo periodo che erano già state ripetute negli ultimi anni. I tassi di sostituzione, ovvero il rapporto tra la prima pensione liquidata e l’ultimo stipendio incassato, tenderanno a decrescere nelle decadi a venire. I tassi di sostituzione netti, nell’ipotesi base ricavata su alcune tipologie di beneficiari, scendono di diversi punto Per esempio, per un lavoratore dipendente con 38 anni di anzianità contributiva che si ritira a 65 anni e 4 mesi, si passa dall’83,2% del 2010 al 77,6% previsto nel 2030. Più forte il calo in caso di lavoro autonomo con gli stessi anni di versamenti e un ritiro a 65,7 anni d’età: si passa da 94% del 2010 al 68,6% del 2030.
A controbilanciare queste tendenze la possibilità, data dai nuovi coefficienti, di continuare a lavorare (potendo) fino a 70 anni, prospettiva che risolleva di diversi punto il tasso di sostituzione.
Il Sole 24 Ore – 4 giugno 2013