Giovanni Negri. Linee guida determinanti per evitare la colpa medica, sia pure lieve. Ma sempre da interpretare da parte dell’autorità giudiziaria. E conseguente abolitio criminis, sia pure parziale con la necessità di riconsiderare la rilevanza penale di condotte già giudicate, anche per un'(eventuale) rideterminazione della pena. La Corte di cassazione con una lunga sentenza, la n. 16237 della Quarta sezione penale, depositata il 9 aprile, destinata a rappresentare un punto di riferimento per l’ampiezza delle motivazioni, si occupa delle conseguenze dell’articolo 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189 (decreto Balduzzi), con il quale è stata operata una parziale abolizione della fattispecie di omicidio colposo.
Con l’esclusione della colpa lieve nel caso in cui il sanitario si attenga alle linee guida e alle buone pratiche terapeutiche.
La Cassazione avvìa così un ampio approfondimento sulla storia della responsabilità medica per approdare alle attuali modifiche normative. Un intervento con il quale il legislatore ha affrontato un problema estremamente delicato, perché le stesse linee guida non costituiscono da sole uno strumento di «ontologica affidabilità», indicandone la soluzione rapportando le stesse linee guida e le pratiche terapeutiche all’accreditamento presso la comunità scientifica: il sanitario potrà così invocare il nuovo e più favorevole parametro di valutazione della sua condotta professionale solo se si è attenuto a direttive solidamente fondate e riconosciute.
La legge, cioè, sottolinea la Cassazione, propone un modello di terapeuta «attento al sapere scientifico, rispettoso delle direttive formatesi alla stregua di solide prove di affidabilità diagnostica e di efficacia terapeutica, immune da tentazioni personalistiche». In questa prospettiva la rilevanza penale va attribuita alle sole condotte caratterizzate da colpa non lieve e le linee guida serviranno anche da guida per il giudizio sulla colpa.
Ma la sentenza si sofferma anche sull’apparente contraddizione per cui un terapeuta potrebbe contemporaneamente rispettare le linee guida ed essere in colpa. Tuttavia, le linee guida, spiega la Corte, a differenza dei protocolli e delle check list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo istruzioni di massima, orientamenti. Vanno cioè applicate in concreto, senza fare ricorso ad automatismi, rapportandole piuttosto alle specificità del caso concreto. Potrà così accadere dunque che il professionista debba modellare le direttive adattandole alle contingenze che gli si presentano momento per momento nell’evoluzione della patologia.
Pertanto «alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie; e la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti. Tale disciplina, naturalmente, trova il suo terreno di elezione nell’ambito dell’imperizia».
Tuttavia si tratta di una protezione che la stessa Cassazione ammette come non illimitata. Le linee guida non sono uno scudo assoluto perché, in ogni caso oggetto di contestazione, occorre individuare la causa del l’evento e il rischio che si è concretizzato. Davanti all’autorità giudiziaria bisogna comprendere se quello specifico rischio è governato da una linea guida qualificata, se il professionista ci si è attenuto e, se malgrado una condotta tutto sommato aderente alle direttive, si è verificato un errore e, in caso positivo, se questo è rilevante o no. In questo contesto, la colpa avrà connotati di gravità «solo quando l’erronea conformazione all’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente». Trattandosi di una abrogazione parziale di norma penale, la condotta già giudicata deve essere rivalutata alla luce delle nuove indicazioni. (Il Sole 24 Ore)
Linee guida, sapere scientifico e responsabilità del medico in una importante sentenza della Cassazione
Francesco Viganò. Mettiamo immediatamente a disposizione dei lettori, auspicando di poterne pubblicare al più presto un commento articolato, questa importante sentenza della IV sezione penale, relativa tra l’altro alla portata applicativa e all’impatto sui processi in corso dell’art. 3 della legge n. 189/2012, la c.d. legge Balduzzi, che peraltro ha formato oggetto di una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Milano della quale abbiamo dato conto nei giorni scorsi (clicca qui per accedere al provvedimento e alla relativa scheda). Non si tratta della prima pronuncia della Cassazione su questo tema; ma si tratta certamente della prima occasione in cui la Suprema Corte si impegna in un’analisi distesa e approfondita della nuova norma, e del suo significato nel sistema complessivo della responsabilità penale del medico.
Ma, in effetti, vi è molto di più in questa pronuncia, destinata a nostro avviso a divenire un punto di riferimento obbligato per la riflessione futura in materia di responsabilità penale del medico, nonché più in generale per la riflessione sul ruolo del giudice in ogni processo in cui egli debba essere utilizzatore – o ‘consumatore’, secondo la felice metafora di Stella – del sapere scientifico (a qualsiasi fine: nel giudizio sulla causalità, sulla colpa, ma anche – ad es. – sul pericolo o sull’imputabilità).
Non ci è possibile pertanto tentare sin d’ora di riassumere in poche battute, senza correre il rischio di banalizzarlo, il complesso – ma esemplarmente ordinato – iter concettuale seguito dalla sentenza: la cui filosofia di fondo è, in definitiva, quella di una lettura della novella legislativa in armonia con un quadro di principi ben più articolato, che già si staglia con evidenza nella più recente giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità colposa. Un quadro di principi che rilette, altresì, la parte migliore delle riflessioni dottrinali degi ultimi cinquant’anni, qui condensate in una felice sintesi che dà finalmente il senso – al di là di tutte le dispute di scuola su questioni inessenziali, o meramente classificatorie – di un lavoro collettivo, lungo un percorso comune alla dottrina e alla giurisprudenza, verso l’obiettivo di un diritto penale più giusto, e più umano. (penalecontemporaneo.it)
17 aprile 2013