Non ci sarà un periodo obbligatorio di «fermata» per i lavoratori che transitano da un contratto a tempo determinato a un altro; sindacati e imprese, all’interno dei contratti collettivi di lavoro, potranno stabilire a loro piacimento comparto per comparto la durata dello «stop» tra un contratto e l’altro. Con una circolare del ministero del Lavoro diffusa ieri, il ministro Elsa Fornero ha così di fatto «rettificato» con una interpretazione autentica la norma contenuta nella riforma del mercato del lavoro, che stabiliva invece un obbligo di interruzione del rapporto di lavoro di almeno 60 giorni, che potevano diventare addirittura 90 se il primo contratto a tempo determinato fosse stato stipulato con una durata superiore ai sei mesi.
La circolare di rettifica arriva dopo molte richieste formulate dalle associazioni degli imprenditori, che avevano fatto notare come la necessità di uno stop di due o tre mesi potesse di fatto preludere al non rinnovo dei contratti a termine arrivati a scadenza. Una minaccia neanche troppo velata, che aveva gettato nel panico i circa 400mila lavoratori (il 40% nel settore pubblico) che avevano un contratto in scadenza entro la fine del 2012.
La circolare 27/2012 emanata dal ministero del Lavoro ha un obiettivo circoscritto e specifico: analizzare la portata delle modifiche introdotte con il decreto sviluppo (Dl 83/2012) alle norme della legge Fornero che hanno riformato il contratto a termine.
La legge 92/2012 ha introdotto una più restrittiva disciplina degli intervalli tra un contratto a termine scaduto e un suo eventuale rinnovo, imponendo un’attesa di 60 giorni (che diventano 90, se il contratto precedente ha avuto durata superiore a sei mesi), al posto della vecchia disciplina che fissava questo periodo in 10 giorni (oppure 20, per la durata ultrasemestrale).
La versione originaria della riforma Fornero consentiva ai contratti collettivi di ridurre a 20 giorni (30, per il caso di durata maggiore) questo intervallo, ma solo in presenza di alcune situazioni organizzative e produttive molto specifiche (avvio di nuove attività, lancio di un nuovo prodotto o di un servizio innovativo, start up eccetera).
Era anche prevista la facoltà per il ministero del Lavoro di intervenire, in caso di inerzia delle parti sociali protratta per 12 mesi, con un decreto sostitutivo.
Questa disciplina è rimasta in vita anche dopo l’emanazione del decreto sviluppo, ma è stata integrata da un’ipotesi aggiuntiva.
Secondo la modifica estiva, i contratti collettivi possono ridurre il periodo di intervallo tra un contratto a termine «in ogni altro caso» ritenuto meritevole di intervento.
In sostanza, con la nuova norma si è venuta a creare un’ipotesi più ampia (l’intervento del contratto collettivo «in ogni caso» ritenuto necessario) di quella originaria (intervento nei soli casi individuati dalla legge).
La circolare evidenzia che le due ipotesi non sono del tutto coincidenti: solo nei casi di intervento per situazioni qualificate, l’inerzia delle parti sociali può essere colmata, dopo 12 mesi, da un intervento sostitutivo del ministero.
Questo in concreto significa che il ministero non adotterà alcun provvedimento generale di riduzione degli intervalli; al limite, e solo se le parti sociali non faranno nulla, provvederà a ridurre i periodi per i casi di avvio di nuove attività e situazioni assimilate.
La circolare chiarisce anche un piccolo refuso della norma, che fa riferimento ai periodi ridotti di cui “al primo periodo”, quando invece questi sono trattati al secondo periodo; si tratta di un evidente errore materiale che non produce problemi applicativi. Fa bene il ministero a evidenziarlo
In fattispecie, rimane ancora da chiarire come i contratti già esistenti e in procinto di conclusione, potranno essere uniformati alla legislazione vigente, essendo pressoché assenti, nelle disposizioni valevoli sul bacino nazionale, norme che regolamentino i tempi di attesa tra scadenza ed eventuale rinnovo per tipologie di lavoro.
A vedersi investito di questo nuovo “rischio esodati” tra i precari, sarebbero addirittura 400mila rapporti lavorativi, di cui quasi la metà in vigore all’interno degli uffici pubblici.
Quel che è certo è che, con il nuovo documento, il potere di intromissione diretta da parte del Ministero del Lavoro viene ridotto sensibilmente, solo alle casistiche incluse già nella riforma Fornero e rispondenti alla categoria delle “ragioni qualificate”, cioè l’apertura di un’attività o la conferma di un contributo centrale già attivo
Leggi la circolare emanata dal Ministero del Lavoro
Leggi il testo della riforma del lavoro
Leggi il testo del decreto sviluppo
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