di Vittorio Mapelli. Finora la spesa sanitaria è stata governata soprattutto attraverso le leve monetarie e a livello centrale. Oggi si tratta di agire anche sulle variabili reali di produzione e consumo, a livello locale. Regioni e Asl hanno due possibilità: scaricare sul governo le responsabilità della manovra ed erogare, con i costi attuali, meno servizi. Oppure possono aumentare la produttività, tagliare gli sprechi e garantire la stessa quantità di prestazioni di oggi anche con meno risorse. Senza alcuna spending review, il finanziamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn) fu decurtato nel 1992 da 93,3 triliardi di lire a 87,9 nel 1993 e 87,5 nel 1994. La spesa sanitaria pubblica crollò in tre anni (1992-95) dal 6,2 al 5,2 per cento del Pil.
In quel periodo drammatico – l’uscita della lira dal Sistema monetario europeo – tutti compresero e fecero la loro parte. I dipendenti del Ssn e i medici di famiglia accettarono il rinvio di tre anni dei rinnovi contrattuali, i cittadini l’aumento dei ticket su farmaci e specialistica, l’industria farmaceutica uno sfoltimento dell’88 per cento del prontuario terapeutico. Solo dopo dieci anni, nel 2002, il finanziamento del Ssn risalì ai livelli precedenti (6 per cento del Pil). Il Ssn si salvò e non successe nulla di grave alla salute degli italiani.
LE SPESE DEL SISTEMA
Oggi il contesto internazionale ci ripropone la stessa drammatica situazione. Il Ssn ha però l’occasione storica di fare ciò che tutti auspicano a parole, senza volerlo realmente: tagliare definitivamente gli sprechi e rendere più efficiente la spesa pubblica. Senza colpire la salute dei cittadini. I tagli alla spesa sanitaria non sono un attentato alla salute degli italiani, perché i dati mostrano che le regioni più efficienti – senza deficit e spesa pro-capite contenuta – sono anche quelle con i servizi sanitari più efficaci (con i migliori esiti di guarigione e salute). E viceversa, quelle (del Sud) con i più alti deficit e la spesa incontrollata, hanno le peggiori performance, in termini di efficienza, efficacia e appropriatezza. Magari, spesa più elevata volesse significare migliore qualità dei servizi!
La spesa sanitaria pubblica oggi (112 miliardi di euro nel 2011) è composta per il 62 per cento da esborsi per il funzionamento e la produzione di servizi pubblici (ricoveri, accertamenti diagnostici, igiene pubblica, ecc.) da parte di Asl e aziende ospedaliere e per il 38 per cento per l’acquisto dai privati (cliniche, laboratori analisi, medici di famiglia, farmacie) di prestazioni convenzionate (consumi sanitari). A sua volta la spesa di Asl e Ao è formata per il 32 per cento da spese di personale e il 30 per cento da acquisti di beni e servizi. Sono spese (o meglio costi) per l’acquisto dei fattori che servono alla produzione dei servizi sanitari pubblici.
La spesa per i consumi sanitari non è altro che il prodotto tra prezzo (p) e quantità (q) delle prestazioni acquistate, mentre per i servizi pubblici tra costo (c) e quantità (q) delle prestazioni prodotte. Per contenere la spesa sanitaria occorre quindi agire su prezzi, costi e quantità delle prestazioni. In linea di massima, il governo e le regioni detengono le leve di controllo dei prezzi o delle variabili monetarie (prezzi dei farmaci, tariffe Drg e della specialistica, remunerazione dei dipendenti e dei medici di famiglia), mentre le Asl e i medici di primo accesso delle variabili quantitative (prescrizioni di farmaci, visite, ricoveri, numero di dipendenti e ore-lavoro, acquisto di beni e servizi). Produzione e consumo sono però guidati dalle scelte dei pazienti, con le loro domande di cure (q), a volte anche non necessarie o eccessive. Il controllo della spesa deve avvenire quindi a più livelli istituzionali, da parte di numerosi soggetti e con strumenti diversificati.
Fino ad ora la spesa sanitaria è stata governata soprattutto attraverso le leve monetarie (p) e a livello centrale. Oggi si tratta di agire anche sulle variabili reali (q) di produzione e consumo, a livello locale. Il Dl 95/2012 sulla spending review non si differenzia in nulla dalla precedenti manovre e usa ancora gli stessi strumenti. La novità del decreto sta tutta nell’epigrafe “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”. Garantire gli stessi servizi, tagliando i finanziamenti, è possibile a una sola condizione: aumentare l’efficienza dei servizi prodotti e diminuire i consumi non necessari nella stessa percentuale dei fondi ridotti. Il finanziamento del Ssn nel triennio 2012-14 sarà prossimo all’1 per cento in più all’anno (+0,9 per cento nel 2012, -0,4 per cento nel 2013 e +1,2 per cento nel 2014), che significa un decremento del 3-4 per cento annuo, rispetto agli attuali ritmi di crescita. (1)
DOVE RISPARMIARE
Per garantire gli stessi servizi sarà necessario quindi eliminare i consumi eccessivi o inappropriati del 3-4 per cento all’anno: ad esempio, riducendo le dosi definite die di farmaci, soprattutto al Sud, ai valori medi nazionali (risparmio atteso fino all’8 per cento), eseguendo i ricoveri ordinari inappropriati in day hospital o ambulatorio (risparmi potenziali fino al 20 per cento) o attuando qualsiasi intervento sui 19 indicatori di inappropriatezza del “Programma operativo appropriatezza” del ministero della Salute (2011). (2) Risparmi, ovviamente, conseguibili nel medio periodo, ma reali. E aumentare la produttività del personale degli ospedali e degli ambulatori pubblici del 3-4 per cento: ad esempio, dagli attuali 15,7 ricoveri per addetto a 16,3 o da 5 visite/ora a 5,2. (3) Variazioni di questa entità sono alla portata del Servizio sanitario e contribuirebbero ad abbassare strutturalmente il suo fabbisogno finanziario. Dovrebbero essere impegni scritti nel Dl 95/2012 e verificabili a posteriori, per poter vigilare sull’invarianza dei servizi. Senza questi miglioramenti sarà ineluttabile una contrazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza) oggi garantiti, perché il previsto incremento dell’1 per cento è già assorbito dalla crescita (0,4 per cento) e invecchiamento (0,9 per cento) della popolazione. (4)
Regioni e Asl hanno di fronte due opzioni: scaricare sul governo le responsabilità della manovra – come sembrano fare – ed erogare, con i costi attuali, una minore quantità di servizi; oppure possono farsi carico di queste scelte dolorose, aumentare la produttività, tagliare gli sprechi ed erogare la stessa quantità odierna di prestazioni. Nel primo caso sarebbero i cittadini a soffrirne, perché si allungherebbero le liste d’attesa e molti si rivolgerebbero al privato a pagamento. Nel secondo caso le regioni avrebbero vinto la sfida e riguadagnato il consenso dei cittadini, perché nessuno si accorgerebbe dei tagli imposti. La spending review potrebbe inaugurare una nuova era – come richiedono i mala tempora che corriamo – o essere l’ennesima occasione mancata. Sapranno raccogliere la sfida le Regioni e le Asl?
(1) Tra il 1995-2010 la spesa del Ssn è aumentata del 5,2 per cento in media all’anno, di cui il 3,5 per cento per i prezzi sanitari e l’1,7 per cento per le quantità di prestazioni.
(2) Le Ddd – dosi definite die – sono una misura standard dei consumi farmaceutici, calcolata sulle dosi necessarie per una persona adulta. I dati sui risparmi possibili sono nostre stime su dati Aifa (Agenzia italiana del farmaco).
(3) I dipendenti del Ssn dovrebbero sentire un obbligo morale a impegnarsi, visto che non sono stati sfiorati dalla crisi, che sta devastando invece il settore privato.
(4) Nostre elaborazioni su dati Istat nel periodo 1995-2010.
Lavoce.info – 28 luglio 2012