Smentite e puntualizzazioni sdegnate. Dopo la bufera della pubblicizzazione dei loro stipendi, i parlamentari ci provano a dire che in realtà non guadagnano 16mila euro lordi, ma solo i 5mila di indennità. E il resto? Sono tutti rimborsi spese e quindi, come tali, esentasse. Insomma il Fisco, di solito così attento, si disinteressa di oltre la metà della busta paga di onorevoli e senatori. Intanto si scopre che uno stenografo a Palazzo Madama ha una busta paga da 290 mila euro e prende più del Re di Spagna. Ai commessi vanno fino a 160 mila euro. A fine carriera stipendi quadruplicati. Di seguito gli articoli di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere e del Sole 24 Ore.
Ma lo stenografo del Senato prende come il re di Spagnadi Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Può un senatore guadagnare la metà del suo barbiere di Palazzo Madama, come lamentano quei parlamentari che per ribattere ai cittadini furenti contro i mancati tagli dicono di prendere intorno ai 5 mila euro? No. Infatti non è così. Il gioco è sempre quello: citare solo l’«indennità». Senza i rimborsi, le diarie, le voci e i benefit aggiuntivi. Con i quali il «netto» in busta paga quasi quasi triplica.
Sono settimane che va avanti il tormentone. Di qua la busta paga complessiva portata in tivù dal dipietrista alla prima legislatura Francesco Barbato, che tra stipendio e diarie e soldi da girare al portaborse ha mostrato di avere oltre 12.000 euro netti al mese. Di là l’insistenza sulla sola «indennità». E la tesi che le altre voci non vanno calcolate, tanto più che diversi (230 contro 400, alla Camera) hanno fatto sul serio un contratto ai collaboratori e moltissimi girano parte dei soldi al partito. Una scelta spesso dovuta ma comunque legittima e perfino nobile: ma è giusto caricarla sul groppo dei cittadini in aggiunta ai rimborsi elettorali e alle spese per i «gruppi»? Non sarebbe più opportuno e più fruttuoso nel rapporto con l’opinione pubblica mostrare la busta paga reale, che dopo una serie di tagli è davvero più bassa di quella da 14.500 euro divulgata nel 2006 dal rifondarolo Gennaro Migliore?
Non ha molto senso, questa sfida da una parte e dall’altra centrata tutta su quanto prendono deputati e senatori. Peggio: rischia di distrarre l’attenzione, alimentando il peggiore qualunquismo, dal cuore del problema. Cioè il costo d’insieme di una politica bulimica: il costo dei 52 palazzi del Palazzo, il costo delle burocrazie, il costo degli apparati, il costo delle Regioni, delle province, di troppi enti intermedi, delle società miste, di mille altri rivoli di spesa che servono ad alimentare un sistema autoreferenziale.
Dice tutto il confronto con le buste paga distribuite, ad esempio, al Senato. Dove le professionalità di eccellenza dei dipendenti, che da sempre raccolgono elogi trasversali da tutti i senatori di destra e sinistra, neoborbonici o padani, sono state pagate fino a toccare eccessi unici al mondo. Tanto da spingere certi parlamentari (disposti ad attaccare Monti, Berlusconi, Bersani o addirittura il Papa ma mai i commessi da cui sono quotidianamente coccolati) ad ammiccare: «Siamo semmai gli unici, qui, a non essere strapagati».
Il questore leghista Paolo Franco lo dice senza tanti giri di parole: «Il contratto dei dipendenti di palazzo Madama è fenomenale. Consente progressioni di carriera inimmaginabili. Ed è evidente che contratti del genere non se ne dovranno più fare. Bisogna cambiare tutto». Come può reggere un sistema in cui uno stenografo arriva a guadagnare quanto il re di Spagna? Sembra impossibile, ma è così. Senza il taglio del 10% imposto per tre anni da Giulio Tremonti per i redditi oltre i 150 mila euro, uno stenografo al massimo livello retributivo arriverebbe a sfiorare uno stipendio lordo di 290 mila euro. Solo 2mila meno di quanto lo Stato spagnolo dà a Juan Carlos di Borbone, 50 mila più di quanto, sempre al lordo, guadagna Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica: 239.181 euro.
Per carità, non «ruba» niente. Esattamente come Ermanna Cossio che conquistò il record mondiale delle baby-pensioni lasciando il posto da bidella a 29 anni col 94% dell’ultimo stipendio, anche quello stenografo ha diritto di dire: le regole non le ho fatte io. Giusto. Ma certo sono regole che nell’arco della carriera permettono ai dipendenti di Palazzo Madama, grazie ad assurdi automatismi, di arrivare a quadruplicare in termini reali la busta paga. E consentono oggi retribuzioni stratosferiche rispetto al resto del paese cui vengono chiesti pesanti sacrifici.
Al lordo delle tasse e dei tagli tremontiani, un commesso o un barbiere possono arrivare a 160 mila euro, un coadiutore a 192 mila, un segretario a 256 mila, un consigliere a 417mila. E non basta: allo stipendio possono aggiungere anche le indennità. Alla Camera un capo commesso ha diritto a un supplemento mensile di 652 euro lordi che salgono a 718 al Senato. Un consigliere capo servizio di Montecitorio a una integrazione di 2.101, contro i 1.762 euro del collega di palazzo Madama. Per non dire dei livelli cosiddetti «apicali». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai rapporti col Parlamento Antonio Malaschini, quando era segretario generale del Senato, guadagnava al lordo nel 2007, secondo l’Espresso, 485 mila euro l’anno. Arricchito successivamente da un aumento di 60 mila che spappolò ogni record precedente per quella carica. Va da sé che la pensione dovrebbe essere proporzionale. E dunque, secondo le tabelle, non inferiore ai 500 mila lordi l’anno.
È uno dei nodi: retribuzioni così alte, grazie a meccanismi favorevolissimi di calcolo, si riflettono in pensioni non meno spettacolari. Basti ricordare che gli assunti prima del ’98 possono ancora ritirarsi dal lavoro (con penalizzazioni tutto sommato accettabili) a 53 anni. Esempio? Un consigliere parlamentare di quell’età assunto a 27 anni e forte del riscatto di 4 anni di laurea ha accumulato un’anzianità contributiva teorica di 38 anni. Di conseguenza può andare in pensione con 300 mila euro lordi l’anno, pari all’85% dell’ultima retribuzione. Se poi decide di tirare avanti fino all’età di Matusalemme (che qui sono 60 anni) allora può portare a casa addirittura il 90%: più di 370 mila euro sul massimo di 417 mila.
Funziona più o meno così anche per i gradi inferiori. A 53 anni un commesso è in grado di ritirarsi dal lavoro con un assegno previdenziale di 113 mila euro l’anno che, se resta fino al 60º compleanno, può superare i 140 mila. Con un risultato paradossale: il vitalizio di un senatore che abbia accumulato il massimo dei contributi non potrà raggiungere quei livelli mai. E tutto ciò succede ancora oggi, mentre il decreto salva Italia fa lievitare l’età pensionabile dei cittadini normali e restringere parallelamente gli assegni col passaggio al contributivo «pro rata» per tutti. Intendiamoci: sarebbe ingiusto dire che le Camere non abbiano fatto nulla. A dicembre il consiglio di presidenza del Senato, ad esempio, ha deciso che anche per i dipendenti in servizio si dovrà applicare il sistema del contributivo «pro rata». Ma come spiega Franco, è una decisione che per diventare operativa dovrà superare lo scoglio di una trattativa fra l’amministrazione e le sigle sindacali, che a palazzo Madama sono, per meno di mille dipendenti, addirittura una decina. Il confronto non si annuncia facile. Anche nel 2008, dopo mesi di polemiche sui costi, pareva essere passato un giro di vite, sostenuto dal questore Gianni Nieddu. Ma appena cambiò la maggioranza, quella nuova non se la sentì di andare allo scontro.
E tutto si arenò nei veti sindacali. Stavolta, poi, la trattativa ha contorni ancora più divertenti. Controparte dei sindacati è infatti la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, esponente della Lega Nord, partito fortemente contrario alla riforma delle pensioni e sindacalista a sua volta: è presidente, in carica, del Sinpa, il sindacato del Carroccio. Nel frattempo, chi esce ha la strada lastricata d’oro. Il consigliere parlamentare «X» (alla larga dalle questioni personali, ma parliamo di un caso con nome e cognome) ha lasciato il Senato a luglio del 2010 a 58 anni. Da allora, finché non è entrato in vigore il contributo triennale di solidarietà per i maxi assegni previdenziali, palazzo Madama gli ha pagato una pensione di 25.500 euro lordi al mese: venticinquemilacinquecento.
Per 15 mensilità l’anno. Spalmandoli sulle 13 mensilità dei cittadini comuni 29.423 euro a tagliando. Da umiliare perfino l’ex parlamentare Giuseppe Vegas, oggi presidente della Consob, che da ex funzionario del Senato, sarebbe in pensione con 20 mila. Neppure il commesso «Y», assunto a suo tempo con la terza media, si può lamentare: ritiratosi nello stesso luglio 2010, sempre a 58 anni, ha diritto (salvo tagli tremontiani) a 9.300 euro lordi al mese. Per quindici. Vale a dire che porta a casa complessivamente oltre 20mila euro in più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori più stretti di Barak Obama.
Sono cifre che la dicono lunga su dove si annidino i privilegi di un sistema impazzito sul quale sarebbe stato doveroso intervenire «prima» (prima!) di toccare le buste paga dei pensionati Inps. I bilanci di Camera e Senato del resto parlano chiaro. Nel 2010 la retribuzione media dei 1.737 dipendenti di Montecitorio, dall’ultimo dei commessi al segretario generale, era di 131.585 euro: 3,6 volte la paga media di uno statale (36.135 euro) e 3,4 volte quella di un collega (38.952 euro) della britannica House of Commons. E parliamo, sia chiaro, di retribuzione: non di costo del lavoro. Se consideriamo anche i contributi, il costo medio di ogni dipendente della Camera schizza a 163.307 euro. Quello dei 962 dipendenti del Senato a 169.550. E non basta ancora. Perché nel bilancio del Senato c’è anche una voce relativa al personale «non dipendente», che comprende consulenti delle commissioni e collaboratori vari, ma soprattutto gli addetti a non meglio precisate «segreterie particolari». Con una spesa che anche nel 2011, a dispetto dei tagli annunciati, è salita da 13 milioni 520 mila a 14 milioni 990 mila euro. Con un aumento, mentre il Pil pro capite affondava, del 10,87%: oltre il triplo dell’inflazione.
4 gennaio 2012 – corriere.it
Esentasse quasi la metà della «busta» del deputato
Il trattamento economico “a strati” offerto ai parlamentari italiani dalla Camera e dal Senato non sfugge solo ai tentativi di comparazione europea su sui si sta scervellando, con qualche imbarazzo, la commissione Giovannini. In gran parte dribbla, legalmente, anche il Fisco.
Per capirlo basta scorrere le tabelle prodotte fino a oggi dagli esperti incaricati dalla manovra-bis di Ferragosto di «livellare» i trattamenti economici degli eletti a quelli dei maggiori paesi Ue. A Montecitorio, il deputato-tipo accumula una cifra lorda complessiva di 20.108 euro: il 44% di questa cifra, però, è esentasse. Se con dieci minuti di passeggiata ci si sposta a Palazzo Madama, la situazione nei fatti non cambia: al Senato il totale guadagna ancora qualche punto e sale a 20.885, e la parte “libera” dal Fisco è il 44,7 per cento. Risultato: l’Irpef applicata sulla sola indennità di un deputato costa circa 5.100 euro al mese, una cifra che rispetto all’entrata totale vale poco più del 25 per cento: più leggera di quella che la legge prevede per chi con il proprio supera i 15mila euro lordi, all’anno.
A gonfiare le entrate dei parlamentari italiani sono infatti soprattutto le voci aggiuntive, che si sommano all’indennità ma hanno un comportamento diverso. Si tratta, prima di tutto, della «diaria», per sostenere le spese di soggiorno nella Capitale (a Montecitorio, per esempio, si tratta di 3.503 euro al mese, quasi 700 euro in meno rispetto ai 4.190 riconosciuti fino al 2010), e delle spese di trasporto. La circolazione «libera» dall’incombenza del biglietto su treni, aerei, autostrade e navi non basta infatti a coprire tutte le esigenze del parlamentare, che per esempio deve andare da casa all’aeroporto e da Fiumicino al Parlamento. I legislatori, cioè ovviamente gli stessi deputati e senatori, hanno pensato anche a questo, assicurando 1.331,7 euro al mese per coprire la parte di viaggio rimasta fuori dalla grautità totale. Completano il quadro i 3.690 euro (sempre al mese) per la rappresentanza, che passano dal gruppo parlamentare di appartenenza, 258,2 euro per telefonare e 41,7 per rimanere costantemente al passo della tecnologia informatica.
Tutte queste voci sono trattate come rimborsi spese, come accade nelle aziende quando si va in missione e, al ritorno, si presenta il conto dell’albergo o del ristorante. Delle somme così incassate, naturalmente, l’Irpef si disinteressa, perché i soldi servono a coprire la spesa sostenuta per lavoro, ma rispetto a questa esperienza quotidiana nell’impresa o negli enti pubblici il meccanismo previsto per deputati e senatori mostra una differenza non da poco. Le cifre sono a forfait, non c’è nessun pezzo di carta da presentare per averne diritto, e basta avere l’accortezza di non esagerare con l’assenteismo per non veder dimagrire troppo la diaria.
I bizantinismi del trattamento economico rendono difficile il lavoro di chi prova a fare chiarezza, ma nascondono paradossi in entrambi i sensi. La trattenuta per il vitalizio (8,6%), per esempio, non riduce l’imponibile fiscale, come accade per gli altri lavoratori, con il risultato che l’addio annunciato ai vitalizi potrà far crescere ancora di un po’ il «netto in busta» dei deputati.
Ilsole24ore.com – 4 gennaio 2012