La proposta di riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali che il Governo potrebbe mettere in campo dopo il confronto con le parti sociali sarà legata a doppio filo con la logica «totalmente contributiva» delle nuove pensioni. Più che a modellistiche come il «contratto unico» o il «contratto prevalente», da associare ai contratti a termine e all’apprendistato in una prospettiva di razionalizzazione delle numerose tipologie che si sono cumulate dopo la riforma Treu (1999) e la legge Biagi (2003), quello cui si sta pensando è un modello di «contratto graduale». Di seguito l’articolo del Sole 24 ore e gli interventi di Tiziano Treu (Pd) e Stefano Saglia (Pdl). Corriere: Più facile licenziare fino a tre anni. Folli: La post concertazione
Un contratto graqduale capace di accompagnare l’allungamento della vita lavorativa e le future uscite flessibili per il pensionamento. Come arrivarci non è tema di oggi ma delle prossime settimane. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, mantiene il massimo riserbo su questo nuovo fronte di riforma e restano, al momento, le indicazione date dal presidente del Consiglio, Mario Monti, nella conferenza stampa di fine anno. L’obiettivo è quello di superare nel più virtuoso dei modi possibili il dualismo che oggi blocca il nostro mercato del lavoro, con le tutele piene da una parte (importante ma minoritaria) e l’infinito ventaglio delle precarietà dall’altra. E per raggiungerlo si passerà da un confronto aperto con i sindacati e tutte le organizzazioni datoriali per conoscere prima le loro analisi dell’assetto attuale del mercato del lavoro e, poi, le loro proposte di intervento concreto.
Un passaggio non semplice e che non potrà non partire anche dai dati relativi alle platee dei lavoratori oggi interessati da un ammortizzatore sociale dopo diversi anni di crisi e di finanziamenti degli strumenti in deroga. Ma la logica del «contratto graduale» è chiara. In un contesto in cui non conta più il peso dell’ultima busta paga per il calcolo della pensione, come si faceva con il residuo sistema di calcolo retributivo, deve valere un modello contrattuale legato all’intero «ciclo di vita» del lavoratore. Un contratto, per esempio, capace di prevedere tempi di lavoro graduati per i più anziani che, magari, possono accettare una retribuzione inferiore e cominciare a incassare una parte dell’assegno previdenziale.
Gli esempi, in giro per l’Europa, non mancano. Uscire dalle otto ore di lavoro standard per rendere possibile l’allungamento della vita lavorativa ora necessario per la pensione di vecchiaia potrebbe essere una strada. L’altra potrebbe essere quella di graduare anche le mansioni del lavoratore, magari tenendo conto del «ciclo di produttività» associato al «ciclo di vita», con una conseguente revisione delle forme di retribuzione attuali che, guardando al passato, pesano di più solo negli anni finali. Mansioni diverse negli ultimi anni di lavoro potrebbero accompagnarsi a quelle ipotesi di «tutoraggio per gli apprendisti» di cui ha parlato in più occasioni anche l’ex ministro Maurizio Sacconi.
L’altro lato fragile del mercato del lavoro di cui si dovrà tener conto sono i giovani e le donne, le categorie che in Italia vantano tra i più bassi tassi di occupazione d’Europa. E il «contratto graduale», più che le diverse forme di detassazione fin qui proposti e in parte sperimentati, potrebbe offrire soluzioni migliori, stando alle ipotesi cui guardano i tecnici del ministero. Insieme al «contratto graduale», naturalmente, dovrebbero arrivare i nuovi ammortizzatori sociali, da finanziare nel medio termine con parte dei risparmi assicurati dalla riforma previdenziale (circa 20 miliardi a regime). Anche su questo fronte le ipotesi di modifica sono numerose ma vanno tutte nella direzione dell’estensione più ampia possibile delle forme di integrazione al reddito con un loro aggancio a percorsi di formazione e ricollocamento.
Il confronto, su tutti questi temi, dovrebbe partire dopo l’Epifania con l’obiettivo di arrivare senza tempi troppo lunghi a un’ipotesi di intervento condivisa da presentare al Parlamento entro marzo, visto che in aprile va presentato a Bruxelles il nuovo Piano nazionale di riforma.
Servono tre forme contrattuali e i contributi armonizzati
Il superamento del dualismo del mercato del lavoro sarà uno dei temi al centro del confronto tra governo e parti sociali. Il più grande dualismo che abbiamo, diversamente dagli altri Paesi, è relativo alle differenze di costi e contribuzioni delle diverse tipologie contrattuali, che contribuisce a creare distorsioni e abusi nel mercato del lavoro. In altre nazioni è previsto lo stesso costo previdenziale, a prescindere dalla tipologia contrattuale.
Il centro sinistra al governo ha alzato il costo dei Cocopro, ed anche l’attuale Esecutivo è intervenuto nella stessa direzione per artigiani e commercianti. In Parlamento è stato presentato un disegno di legge bipartisan, firmato da me e da Giulio Cazzola, per l’armonizzazione progressiva dei costi dei Cocopro con il lavoro dipendente, con l’obiettivo di avvicinarsi all’aliquota del 33%. Questo intervento di armonizzazione contribuirebbe ad eliminare in tempi brevi centinaia di migliaia di abusi.
Inoltre si possono semplificare le tipologie contrattuali, e ricondurle sostanzialmente a tre: il lavoro prevalente, ovvero a tempo indeterminato; il lavoro a termine con la variante del lavoro somministrato e l’apprendistato. Le altre tipologie possono essere considerate delle varianti di queste tre principali. Fare un’operazione di chiarezza è la premessa per contrastare le distorsioni. Per aumentare la flessibilità in entrata ritengo si possa introdurre il contratto prevalente, con i primi 3 anni privi delle attuali tutele. Dopo questa fase possono essere confermati gli attuali sistemi di protezione.
Va superato anche il dualismo esistente per gli ammortizzatori sociali. Precari e giovani che non hanno un’anzianità contributiva sufficiente oggi sono privi di tutele. Durante la crisi si è intervenuti con la cassa in deroga, rivolta ai dipendenti delle piccole imprese e di settori non coperti da ammortizzatori ordinari, in modo da arginare il problema. Con gli attuali ammortizzatori spesso si tengono artificialmente in vita per numerosi anni rapporti di lavoro che non esistono più. In alternativa ritengo più utile un sistema strutturalmente fondato su tre pilastri: la cassa integrazione sostanzialmente pagata dalle categorie per un tempo realmente definito, al termine del quale occorre avere coraggio e passare direttamente al trattamento di disoccupazione. È questo il secondo pilastro, di tipo assicurativo, pagato dalle categorie. Il terzo pilastro, invece, prevede un intervento dell’Erario: se al termine della disoccupazione, nonostante i servizi di outplacement non si riesce a ricollocare il lavoratore, si può ricorrere ad un intervento di natura assistenziale, una sorta di salario sociale, temporaneo. È un ammortizzatore di ultima istanza.
Quanto all’articolo 18, non ho tabù. A suo tempo presentai una proposta di legge ispirata al modello tedesco: invece di rendere automatico il reintegro, in caso di licenziamento senza giusta causa, proponevo di dare al giudice il potere di valutare la situazione. In presenza di una grave discriminazione il giudice può disporre il reintegro, in altri casi può optare per il risarcimento. È fondamentale, però, che vi sia chiarezza sull’ordine di priorità, perchè se si fanno tutti gli interventi esposti precedentemente si contribuisce a sdrammatizzare il delicato tema. Se, tuttavia, il tema è motivo di conflitto sociale, credo sia meglio lasciar perdere. Per assicurare la flessibilità in uscita chiesta dall’Unione europea, si può velocizzare il processo, con una procedura d’urgenza come per l’articolo 28 sui comportamenti antisindacali. Passato un certo periodo, ad esempio un anno, in mancanza di un pronunciamento della magistratura si può stabilire che il sovraccosto dovuto al ritardo non debba gravare sull’impresa, ma su un fondo di garanzia pubblico. Quello che preme di più all’azienda, infatti, è la certezza sui tempi e sui costi. Su questi temi, suggerisco a tutti un approccio pragmatico e non ideologico.
Tiziano Treu – Senatore Pd – Il Sole 24 Ore – 3 gennaio 2012
La via dei contratti aziendali aperta con la manovra d’agosto
La grave crisi che sta colpendo le economie avanzate ha reso evidenti le criticità dal mercato del lavoro del nostro Paese dove, col tempo, si è creato un divario tra lavoratori con posizioni più tutelate e lavoratori con minori garanzie. La flessibilità ha favorito un aumento dell’occupazione ma ha contemporaneamente generato precarietà. Inoltre, essa è stata introdotta con riforme a margine che hanno ridotto le garanzie per i contratti atipici ma hanno mantenuto, invece, inalterate quelle dei contratti regolari.
In sostanza i contratti a termine esercitano un impatto negativo sull’accumulazione del capitale umano specifico, in particolare nelle economie come la nostra dove le imprese sono specializzate in settori tradizionali. Pertanto maggiori garanzie contrattuali per i lavoratori assunti a tempo determinato sono uno dei presupposti necessari per far ripartire la crescita. Non è un caso che la Bce chieda una revisione accurata delle modalità di assunzione e di licenziamento dei dipendenti. Bisogna concentrarsi, dunque, nella flessibilità in entrata accompagnata in un quadro di miglior tutela della disoccupazione. Creare dunque un patto generazionale tra i nuovi lavoratori e le imprese. Lo sviluppo dell’economia e la creazione dei posti di lavoro non avvengono attraverso l’emanazione di leggi o decreti ma questi sono il presupposto per favorire un cambiamento strutturale.
Gli altri Paesi europei hanno agito anche sul versante delle politiche attive del lavoro e del sostegno al reddito. Bisogna procedere in Italia a una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali e trovare, quindi, il giusto equilibrio tra le esigenze di flessibilità delle imprese e quelle dei lavoratori.
È evidente che molti imprenditori in Italia non vogliano assumersi i rischi connessi all’applicazione dell’articolo 18 e per questo fanno ricorso ai contratti atipici. I dati relativi ad altri Paesi europei sembrano confermare una relazione diretta tra la percentuale di lavoratori atipici e la rigidità in uscita dai contratti standard: nel Regno Unito, dove la rigidità è minore, i lavoratori atipici sono appena il 5% del totale mentre in Italia e in Spagna, dove la rigidità in uscita è maggiore, le percentuali sono del 13% e del 25%.
La strada per unificare il mercato del lavoro, è stata già individuata e indicata nella lettera inviata dal Governo Berlusconi all’Ue con la revisione delle norme sulle assunzioni e sui licenziamenti in un quadro di nuove tutele sostenibili e di politiche attive del lavoro. C’è bisogno di una riforma che favorisca una maggiore propensione ad assumere e una attenzione alle esigenze di efficienza dell’impresa con una maggiore flessibilità in uscita nei contratti a tempo indeterminato. Inoltre, bisogna rendere più stringente l’uso dei contratti atipici, troppo spesso utilizzati per lavoratori di tipo subordinato.
Su questa strada, è stata introdotta con la manovra di agosto la possibilità di stipulare intese a livello aziendale o territoriale, sottoscritte dai sindacati più rappresentativi, in deroga ai contratti collettivi nazionali e a norme di legge. Si tratta di un contributo essenziale allo sviluppo che definisce con la libera contrattazione modelli organizzativi e produttivi flessibili idonei per consolidare le ripresa. Nell’attuale sistema economico le imprese hanno bisogno di organici variabili in relazione ai picchi produttivi. Non siamo di fronte a una modifica legislativa dell’articolo 18 ma di fronte a una opportunità condizionata a un’intesa sindacale.
In ultimo vorrei fare mia la distinzione di Jean Claude Barbier ed Henry Nadel tra flessibilità del lavoro (adattamento dell’attività umana alle specifiche esigenze di produzione) e flessibilità dell’occupazione (rendere variabili le condizioni, le regole e le norme dell’esercizio del lavoro). Quest’ultima implica, pertanto, la revisione di elementi di garanzia e di sicurezza fin qui acquisiti. La riforma che bisogna realizzare dovrà, dunque, rendere flessibile il lavoro e al tempo stesso creare una flessibilità in positivo dell’occupazione, con il miglioramento delle condizioni generali dell’esercizio del lavoro senza creare sperequazioni tra tipologie contrattuali o settori produttivi.
di Stefano Saglia Deputato Pdl – Il Sole 24 Ore – 3 gennaio 2011