La Cassazione (sentenza 7021/11) ha stabilito che durante l’aspettativa parentale è possibile lavorare: anche presso aziende concorrenti. È stato infatti rigettato il ricorso, presentato dal datore di lavoro, contro la dichiarazione di illegittimità del licenziamento disciplinare del lavoratore, per aver svolto, durante l’aspettativa parentale attività lavorativa per quattro giorni alle dipendenze di una società direttamente concorrente. Il caso. La lavoratrice denuncia la violazione e la falsa applicazione delle regole sulla correttezza, sull’esecuzione di buona fede e sull’obbligo di fedeltà nonché sull’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Viene anche dedotto che in caso di aspettativa per motivi familiari, come da disposizioni della legge per il sostegno della maternità e della paternità, vige il divieto di svolgere attività lavorativa. In questo caso, si ritiene che lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con quella svolta dal datore di lavoro lede gravemente l’obbligo di fedeltà giustificando il licenziamento per giusta causa. Si lamenta l’errata applicazione dell’art. 4, L. n. 53/00, da parte della Corte d’appello, che ha ritenuto di carattere occasionale la prestazione lavorativa ed escluso una irreparabile lesione del vincolo fiduciario in quanto, durante l’aspettativa, le principali obbligazioni del contratto (prestazione lavorativa e retribuzione) sono soggette a sospensione.
La Cassazione fa notare che i giudici di secondo grado hanno fatto leva sulla sporadicità di tale attività lavorativa, limitata a quattro giornate in relazione ad un periodo di aspettativa durato due mesi e che comunque, la ricorrente chiede un diverso accertamento dei fatti, dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte. Non si configura quindi l’infedeltà, che scatta soltanto quando si utilizza il bagaglio di conoscenze acquisito alle dipendenze del datore nell’ambito delle prestazioni fornite a un terzo. L’illecito disciplinare c’è, ma non è ritenuta censurabile la motivazione che reputa eccessivo il licenziamento. Per questo, la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Lastampa.it – 18 dicembre 2011