Accelerare già nel fine settimana per avere una prima presa di contatto con le parti sociali a cavallo tra fine novembre e inizio dicembre. La tabella di marcia per la nuova riforma previdenziale non è stata ancora definita dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ma l’obiettivo è quello di fare presto. Tre le direttrici lungo le quali si dovrebbe snodare l’intervento sulle pensioni: contributivo per tutti; superamento dei trattamenti di anzianità; innalzamento a regime della soglia di vecchiaia dai 67 anni indicati dal governo uscente a 70 anni. Lo stesso premier, Mario Monti, del resto, nel Consiglio dei ministri di ieri è stato chiaro: le misure per l’attuazione del programma di Governo saranno attuate in tempi brevi. Le pensioni dovrebbero rientrare nella cosiddetta seconda fase del piano in due tappe abbozzato nei giorni scorsi.
In ogni caso, non si dovrebbe perdere troppo tempo. Al momento, il ministro Fornero è concentrata soprattutto sul completamento della squadra al ministero, che tra l’altro ha assorbito anche i compiti prima affidati al dicastero delle Pari opportunità. Dovranno arrivare almeno un viceministro e un sottosegretario. Diversi i nomi fin qui circolati: da Carlo Dell’Aringa a Michele Tiraboschi fino a Teresa Pietrangolini.
È chiaro però che Fornero sta pensando, fin dal momento della sua nomina, al dossier previdenziale. La strada maestra resta quella dell’eliminazione dei privilegi e dell’adozione di misure improntate all’equità, soprattutto per garantire maggiori certezze alle giovani generazioni. Una strada che ha già un nome: contributivo per tutti nella forma pro rata.
Resta invece tutta da giocare la partita sull’innalzamento dell’età pensionabile e sul superamento delle anzianità. L’obiettivo del ministro Fornero è quello di accelerare il percorso previsto per portare la soglia di vecchiaia a 67 anni e possibilmente farla salire a quota 70 anni. Un obiettivo su cui il Pd non non si oppone a patto che, come ha ribadito ieri il segretario Pier Luigi Bersani, il posticipo dei pensionamenti avvenga su base volontaria.
Il compromesso potrebbe essere trovato su un meccanismo flessibile (peraltro già caldeggiato da diversi esponenti del Pd e inserito in una proposta bipartisan che sarà presentata oggi), con un età minima di 62-63 anni e un’età massima di 70 anni, ancorato a un dispositivo di incentivi e disincentivi: penalizzazioni per chi esce dal lavoro prima dei 65 anni e micro-incentivi per i lavoratori che optano per il pensionamento da 66 anni in su. Il tutto dovrebbe essere accompagnato dall’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione nel 2012, anno in cui verrebbe anche anticipato l’aggancio alla speranza di vita.
Sulla questione è intervenuto ieri anche il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua: «Mi sembra che ci sia la volontà di finire il percorso iniziato sulle pensioni di anzianità, i privilegi e le disparità e completare quanto fatto negli ultimi 20 anni sulla previdenza». Proprio l’Inps potrebbe essere al centro di uno dei prossimi interventi che il ministro Fornero dovrà mettere a punto per effetto dell’avvio della spending review: la riorganizzazione degli enti previdenziali anche attraverso la nascita di un unico super-Istituto. Nell’agenda del ministro c’è anche l’intervento sulle pensioni di invalidità e reversibilità che dovrebbe arrivare con l’attuazione della delega fiscale e assistenziale all’esame del Parlamento.
Con le regole attuali retributivo addio a partire dal 2037
Il sistema pensionistico italiano dopo gli ultimi aggiustamenti è uno dei più «sostenibili» in Europa, è vero. Il suo problema sono i tempi biblici che, secondo il calendario attuale, dovrebbe impiegare per portare a regime i tanti ingredienti che gli consegneranno questa palma.
Uno dei punti-chiave, più volte ribaditi dal ministro del Lavoro Elsa Fornero nei suoi interventi in veste di studiosa del sistema previdenziale, è il passaggio al contributivo, cioè il meccanismo che calcola l’assegno sulla base delle somme versate dal lavoratore nel corso della propria vita professionale. Il contributivo è entrato nel nostro sistema pensionistico con la riforma Dini del 1995, ma il vecchio sistema retributivo, che parametrava l’assegno agli stipendi ricevuti nell’ultima parte della vita lavorativa, tarderà decenni per abbandonare la scena: la prima annualità di nuovi pensionati interamente regolata dal contributivo «puro», marginali eccezioni a parte, si affaccerà nel 2037, quando il nuovo meccanismo determinerà integralmente anche l’assegno di chi va in pensione con 40 anni di anzianità, e solo dal 2033 diventeranno la regola i primi assegni di anzianità completamente retributivi secondo i meccanismi attuali delle «quote».
Nel frattempo, chi va in pensione oggi, secondo i calcoli effettuati dalla Ragioneria generale dello Stato su una serie di profili-tipo, riceve in media un assegno piuttosto vicino agli importi dell’ultima retribuzione: di regola, infatti, i nuovi pensionati sono ancora dominati dal meccanismo retributivo, perché la riforma Dini ha escluso completamente dall’applicazione chi abbia iniziato a versare regolarmente i contributi nel 1977: dal momento che le «quote» (date dalla somma di età anagrafica e anzianità professionale) impongono 36 anni di lavoro, i primi gruppi consistenti di lavoratori interessati dalla riforma matureranno il requisito della «quota» nel 2014, e vedranno aprirsi la finestra mobile nel 2015 (nel 2016 se si tratta di lavoratori autonomi).
Proprio da qui nascono i tentativi in campo per accelerare i tempi. Sul tavolo, per il momento, campeggia l’idea di estendere il contributivo pro quota a tutti i lavoratori oggi in attività, a prescindere dalla data del primo contributo versato. Viste le date citate qui sopra, questo intervento avrebbe il vantaggio di garantire risparmi fin da subito, perché inciderebbe in particolare sugli assegni di chi va in pensione nei prossimi cinque anni; per questi profili il contributivo, nelle ipotesi allo studio, dovrebbe riguardare solo le annualità dal 2012, e attenuerebbe lo “scalone degli assegni” oggi in programma fra cinque anni. Con le regole attuali, infatti, si passerebbe di colpo da pensioni sorrette integralmente dal retributivo ad assegni pesati per almeno metà della vita lavorativa sul contributivo, con il conseguente abbassamento degli importi.
Gli effetti sul «tasso di sostituzione», cioè sul rapporto fra l’ultimo stipendio e il primo assegno previdenziale, cambiano anche a seconda delle categorie di lavoratori. Secondo i calcoli della Ragioneria, per esempio, nel caso dei lavoratori dipendenti anche con il passare degli anni la pensione di chi ha versato contributi regolari non scenderà in media sotto il 66% dell’ultimo stipendio, mentre per gli autonomi l’aliquota di contribuzione inferiore farà sprofondare gli assegni del futuro fino a quota 50-52%. Un altro squilibrio su cui è importante intervenire.
Ilsole24ore.com – 22 novembre 2011