Il completamento della riforma Dini e le sperequazioni per età. Incentivi a restare. Con il contributivo pro-rata l’aumento sarebbe pari a 536 euro per un 63enne. Estensione a tutti del metodo contributivo? È molto probabile. Il neo ministro del Lavoro Elsa Fornero sostiene da tempo una modifica del sistema che introdurrebbe, al di là di una riduzione della spesa previdenziale, una maggiore equità. Il metodo retributivo che garantisce al lavoratore il reddito che ha ottenuto nell’ultima parte della sua vita, è ormai ritenuto un meccanismo che produce gran parte delle diseguaglianze sociali di oggi: pensiamo, ad esempio, al caso limite di un lavoratore che va in pensione da direttore generale, avendo iniziato da fattorino.
Il contributivo, al contrario, applicato a chi ha iniziato a lavorare dopo il ’96, produce una sostanziale equivalenza tra contributi versati e pensione incassata. Ma vediamo cosa comporta in concreto.
La riforma Dini
La grande riforma varata nell’agosto del ’95 prevede tre diversi procedimenti di calcolo della pensione, a seconda dell’anzianità maturata al 31 dicembre di quell’anno.
1) Per i lavoratori più anziani, quelli che potevano contare su un minimo di 18 anni di contributi (in linea di massima, si tratta dei nati tra il ’50 e il ’60), il conteggio della rendita è rimasto sostanzialmente invariato: il cosiddetto retributivo, agganciato agli stipendi riscossi nell’ultimo periodo lavorativo.
2) Per i lavoratori con meno di 18 anni di contributi alla fine del ’95, il calcolo viene invece effettuato utilizzando entrambi i criteri: il retributivo, per gli anni di anzianità accumulata sino al 31 dicembre 1995; e il contributivo, per l’anzianità acquisita dal 1° gennaio 1996 in poi.
3) E infine le nuove generazioni, coloro cioè che hanno cominciato a lavorare dopo il ’95, per i quali il conteggio viene determinato esclusivamente con il metodo contributivo.
I calcoli della Ragioneria
Secondo la Ragioneria generale dello Stato, il grado di copertura assicurato dal sistema pensionistico pubblico per un lavoratore dipendente uomo, partendo da un valore di circa il 70% dell’ultimo salario o stipendio per coloro che oggi cessano l’attività in età di 63 anni e con 35 anni di contribuzione, scenderà al 52,8% nel 2040 al raggiungimento del pieno regime definito nel ’95. La riduzione deriva dal maggior peso che nel tempo assume il sistema di liquidazione contributivo rispetto al retributivo e dall’allungamento della speranza di vita. In seguito la diminuzione è meno rilevante: la copertura sempre per lo stesso individuo si colloca sul 51,8% nel 2050 e sul 50,8 nel 2060.
Al netto delle imposte, il grado di copertura è invece maggiore, con il venir meno del prelievo contributivo e la progressività del sistema fiscale. Il beneficio per i lavoratori dipendenti è valutabile in media in un 10% del salario (l’aliquota a carico del dipendente è del 9,19%); il guadagno è più ampio per i percettori di redditi modesti, per i quali la soglia non tassabile assume particolare rilievo. La riduzione della copertura rispetto a coloro che accedono alla pensione oggi potrà essere maggiore di quella pronosticata, perché i giovani oggi incontrano serie difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro e i periodi di attività sono spesso discontinui. È quindi quasi certo che, a parità di età, coloro che andranno in pensione nei prossimi decenni avranno un periodo di contribuzione più limitato rispetto ai pensionandi attuali. Inoltre, il grado di copertura comunemente indicato è quello offerto al momento del pensionamento. Successivamente, essendo stato di fatto abolito il collegamento delle pensioni con l’evoluzione delle retribuzioni in termini reali, tale parametro è destinato a ridursi; per un individuo di sesso maschile con 63 anni di età e 35 anni di contributi l’attuale grado di copertura indicato dalla Ragioneria generale dello Stato nel 70% al momento del pensionamento, data una vita attesa residua di circa 20 anni, nell’ipotesi di una crescita media dei salari dell’1,5% in termini reali si ridurrebbe gradualmente nel corso del tempo; nel periodo finale della vita esso scenderebbe a circa il 52%.
Come funziona il contributivo
Il sistema contributivo funziona come un libretto di risparmio. Il lavoratore provvede, con il concorso dell’azienda, ad accantonare annualmente il 33% del proprio stipendio (i lavoratori autonomi il 20% del reddito). Il capitale versato produce un interesse a un tasso legato alla dinamica quinquennale del Pil (il Prodotto interno lordo) e all’inflazione. Quindi più cresce l’Azienda Italia, maggiori saranno le rendite su cui si potrà contare. Alla data del pensionamento, al montante contributivo rivalutato si applica un coefficiente di conversione che cresce con l’aumentare dell’età. Il coefficiente, ad esempio, è pari al 4,798%, per chi sceglie di chiedere la rendita a 60 anni, sale al 5,093% per chi resiste fino a 62 anni e al 5,620% se si decide di arrivare fino a 65 anni.
La transizione
L’introduzione del contributivo per tutti, avverrà comunque in pro-rata. Riguarderà sì la totalità dei lavoratori, indipendentemente dal numero degli anni contributi accumulati al dicembre ’95, ma varrà solo per i versamenti futuri (per la contribuzione versata dal 1° gennaio 2012, come sembra). Gli effetti negativi, il sistema retributivo è certamente più vantaggioso, saranno maggiormente attenuati, quanto più è vicina la data del pensionamento. Prendiamo ad esempio un dipendente con uno stipendio pensionabile di 30 mila euro l’anno a cui venga imposto di lavorare 2-3 anni in più. Mantenendo la regola retributiva, ogni anno di lavoro aggiuntivo porterebbe a un aumento dell’assegno annuo di 600 euro (il 2% della retribuzione), a prescindere dall’età di pensionamento. Adottando il contributivo pro-rata, tale aumento dipenderebbe dall’età e sarebbe pari a 536 euro per un 63enne e a 573 euro per un 65enne.
Ma cosa bolle in pentola? Quanto al pensionamento, stando alle indiscrezioni, la fascia di età stabilita nel 1995 (57-65 anni) dovrebbe essere adeguata all’aumentata aspettativa di vita e portata quindi a 62-68 (70) anni. Una forchetta che dovrebbe essere in seguito automaticamente adeguata, secondo una delle norme non ancora in vigore, alle variazione della longevità. Potrà essere consentito il pensionamento anticipato a prima dei 63 anni, ma in questo caso l’assegno mensile verrebbe ridotto proporzionalmente.
Domenico Comegna – corriere.it – 20 novembre 2011
Passaggio al contributivo? Ci perde chi si ritira prima
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Sembra dunque deciso. Il passaggio al sistema di calcolo della pensione cosiddetto «contributivo» dal primo gennaio 2012 è destinato ad essere uno dei primi provvedimenti del nuovo governo Monti. Una volta sentite le parti sociali, il neo ministro Elsa Fornero metterà in pratica un’idea che coltiva da tempo. Un cambio di sistema finalizzato all’equità generazionale. Occorre infatti riconoscere che le pensioni retributive sono caratterizzate da uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute. Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di un vero e proprio regalo a carico della collettività. Non è facile calcolarne l’ammontare, perché dipende da molti parametri. Se ne può ottenere una stima attraverso un indicatore della generosità del nostro sistema pensionistico, che conferma i notevoli benefici garantiti a chi è già in pensione, e chi vi andrà nei prossimi anni.
Il sistema a ripartizione
Il generoso «retributivo» scomparirà del tutto solo nel 2030, quando sarà finalmente a regime il criterio «contributivo». Un sistema a ripartizione, come è il nostro (secondo cui si pagano le pensioni sulla base dei contributi incassati), è finanziariamente sostenibile quando restituisce al lavoratore, sotto forma di rendita, i contributi versati, capitalizzati a un tasso pari al tasso di crescita dell’economia. Ebbene, la formula retributiva ha per troppo tempo sistematicamente violato il principio della sostenibilità, offrendo un «rendimento» (un interesse annuo sui contributi) assai superiore a quello finanziariamente sostenibile.
Un assegno per tre
Per quanto riguarda il calcolo della pensione, la riforma del ’95 ha individuato tre tipologie di lavoratori:
1) I «fortunati» del 1995, esonerati dall’applicazione del contributivo grazie alla artificiosa demarcazione introdotta tra coloro che, al 31 dicembre 1995, avrebbero raggiunto almeno 18 anni di anzianità e gli altri.
2) I «parzialmente fortunati», con anzianità inferiore a 18 anni nel 1996, la cui pensione sarà calcolata secondo il pro rata, ossia in base alla regola retributiva per l’anzianità maturata al 1995 e a quella contributiva per l’anzianità dal 1996.
3) Gli «sfortunati», coloro che si sono affacciarti nel mondo del lavoro a partire dal 1996, la cui pensione sarà interamente contributiva. La prima conseguenza dell’introduzione del contributivo pro rata è un generale avvicinamento dei trattamenti tra le categorie. Si avrebbe così un aumento dell’età minima di pensionamento, mentre sparirebbero le pensioni di anzianità per i «fortunati» e i «parzialmente fortunati», i quali avrebbero almeno una parte di pensione contributiva, molto piccola per i primi, più grande per i secondi.
Il calcolo «pro rata»
È bene precisarlo per non spaventare. L’introduzione del criterio contributivo per tutti, sarà comunque effettuata in pro rata. Riguarderà sì la totalità dei lavoratori, indipendentemente dal numero degli anni contributi accumulati al dicembre ’95, ma varrà solo per i versamenti futuri (cioè per la contribuzione versata dal primo gennaio 2012). Questo significa che gli effetti negativi, il sistema retributivo è certamente più vantaggioso, saranno maggiormente attenuati, quanto più è vicina la data del pensionamento. Ma quanto ci perdo passando al contributivo? Un interrogativo che si pongono in molti i questi ultimi giorni. Tentiamo quindi di dare una risposta, con l’aiuto qualche caso concreto.
Qualche esempio
Un impiegato con 35 anni di lavoro alle spalle e una retribuzione di 30 mila euro che decida di lasciare tra 5 anni (raggiunti i 40 anni di contributi) all’età di 59, con il passaggio al contributivo perderebbe circa 52 euro al mese. Perdita che scende a 32 euro mensili di pensione, se la sua anzianità al 31 dicembre del 2011 anziché di 35 anni è di 37 anni
Invece, ci rimette solo 9 euro al mese nel caso in cui alla fine di quest’anno possa contare su 39 anni di contribuzione.
Per il funzionario con 70 mila euro di stipendio, invece, il taglio dell’assegno mensile si aggirerebbe intorno a 78 euro con 35 anni di anzianità al 31 dicembre del 2011. Perdita che si riduce: a 42 euro con un’anzianità di 37 anni, sino a raggiungere soli 25 euro (su una rendita mensile di 3.779 euro) in presenza di 39 anni di contributi versati. Questo perché il vantaggio del conteggio retributivo si attenua man mano che la retribuzione pensionabile, cioè l’ultima retribuzione, sale. Infatti, al sopra del cosiddetto «tetto» (oggi pari a 43.042 euro), l’aliquota di rendimento del 2%, per ogni anno di contributi, si assottiglia sino a raggiungere l’1% (0,90% per le quote di pensione maturate dopo il 1992), per la parte di retribuzione pensionabile eccedente gli 81.780 euro. Un sacrificio tutto sommato accettabile che convincerebbe più di uno a prolungare l’attività oltre i 40 anni, tetto massimo di anzianità presa in considerazione dal «retributivo», recuperando peraltro in pensione l’anno in più di lavoro (e versamento di contributi) che deve scontare per via della finestra mobile (decorrenza fissata 13 mesi dopo). Sempre che non venga soppressa, come pare sia nelle intenzioni del nuovo ministro.
21 novembre 2011