È stato per lungo tempo il tesoretto di chi usciva dal lavoro. Con il Trattamento di Fine Rapporto (Tfr) migliaia di padri delle vecchie generazioni hanno comprato la casa per loro e per i loro figli. Dopo essere stato girato alla previdenza complementare ora potrebbe cambiare di nuovo. lavoratori, almeno quelli delle aziende con più di 50 dipendenti, nel 2007 per impulso di Prodi e Padoa Schioppa, hanno accettato di convertirlo in flussi destinati alla previdenza futura. Obiettivo: integrare assegni che alla fine del ciclo lavorativo rischiavano di essere insufficienti a garantire un tenore di vita accettabile. È stata, sebbene passata quasi sotto silenzio, una delle più importanti riforme del sistema pensionistico italiano.
Anche se molti occupati l’hanno snobbata e hanno preferito tenere il Tfr nelle aziende oppure in un conto del ministero del Tesoro vincolato. Ora la proposta della Lega di metterlo subito in busta paga per aumentare il salario, mediamente basso percepito dai dipendenti, spariglia tutto, anche l’esistente e il buono della riforma. E la proposta del Carroccio non è la classica uscita ferragostana. I tecnici del Tesoro sarebbero già al lavoro per tradurre concretamente l’ipotesi. L’intervento consisterebbe in un incremento mese per mese della busta paga pari all’accantonamento che mensilmente viene fatto dal datore di lavoro. Si tratta di una fetta pari a circa il 7% dello stipendio lordo. In sostanza, sarebbe come avere uno stipendio in più ogni anno, una sorta di quattordicesima (per chi non ce l’ha) o una «quindicesima». Non è semplice operativamente. Va chiarito ad esempio se convenga spalmare in busta paga l’accantonamento o concentrarlo in un’unica soluzione. Nella seconda ipotesi va quindi studiato il modo per non far pesare troppo la scelta sulle aziende sotto i 50 dipendenti, togliendo liquidità su cui le piccole imprese fanno gran affidamento. In fondo il Tfr è anche una fonte di finanziamento per le pmi che utilizzano risorse, non loro ma dei lavoratori per il ciclo aziendale, remunerate a un tasso inferiore al costo del denaro sul mercato. La soluzione ventilata potrebbe essere un accordo con l’Abi o la Cassa Depositi Prestiti per fornire i mezzi necessari a pagare le liquidazioni di spettanza. Le diffidenze sul tema che dovrebbe tramutarsi in un emendamento del Governo sono molte anche all’interno della maggioranza. «Mi sembra un’ipotesi del tutto inopportuna – ha sottolineato il deputato del Pdl Giuliano Cazzola esperto di pensioni – perché il Tfr è destinato a cose importanti, come la previdenza complementare, oppure l’acquisto della casa o spese sanitarie, e non per avere quattro soldi di più in busta paga, che poi vengono assoggettati anche alla progressività dell’aliquota Irpef» mentre la buonuscita ha una tassazione più favorevole. Non solo. Cazzola ha fatto notare che per i lavoratori delle imprese con oltre 49 dipendenti, l’inoptato, ovvero il Tfr che non va ai fondi di previdenza complementare per scelta esplicita del lavoratore, oggi confluisce in un fondo del Tesoro gestito dall’Inps «che vale dai 4 ai 5 miliardi di euro l’anno». Se veramente prendesse piede l’ipotesi verrebbero meno anche «queste importanti entrate». Nell’ambito delle opzioni sul tavolo spunta anche quella di una definitiva integrazione tra l’Inpdap, l’istituto che gestisce la previdenza di 3,5 milioni di statali, e l’Inps. Il Tfr dei dipendenti pubblici custodito dal primo ente è ancora assoggettato alle vecchie regole, ovvero liquidato integralmente alla fine della vita lavorativa. Non a caso una delle più importanti misure nel decreto legge della manovra prevede proprio per esigenze di cassa il posticipo di due anni dell’erogazione del dovuto a chi è a un passo dalla pensione. Ebbene la fusione tra i due istituti potrebbe essere la base per la creazione di un fondo in grado di garantire un secondo pilastro previdenziale agli impiegati pubblici. Attualmente non esiste nessuna pensione complementare e con le regole attuali i più giovani tra loro rischiano di avere rendite misere. Il loro Tfr potrebbe integrarle nel futuro.
Il Tempo – 18 agosto 2011
Quanto pesa il fisco con il tfr in busta paga
Una spinta immediata alla capacità di spesa dei lavoratori dipendenti, che però rischia di essere pagata cara in prospettiva. Potrebbe essere questo l’effetto dell’ipotetico inserimento del trattamento di fine rapporto nella busta paga, rilanciato nei giorni scorsi dal leader della Lega Umberto Bossi.
Il punto da valutare, prima di rallegrarsi dell’effetto “aumento” offerto dall’ingresso del Tfr nello stipendio mensile, è il peso del Fisco, che oggi tratta l’assegno finale dell’attività lavorativa con un occhio di favore particolare. Il trattamento di fine rapporto, infatti, oggi non entra nell’imponibile Irpef ma viene sottoposto a un tassazione separata, che si comporta in modo diverso a seconda della quota di Tfr su cui si applica: sulla rivalutazione (pari al 75% dell’inflazione programmata + l’1,5%) ogni anno viene applicato l’11%, mentre il capitale si tassa alla fine, in pratica trattando come reddito Irpef il 30% della somma accantonata negli anni.
Risultato: in tutti i casi il rapporto fra entrate lorde per il lavoratore e le tasse pagate nel tempo (sintetizzato nell’ultima colonna a destra della tabella pubblicata qui) è drasticamente più basso rispetto a quello che si avrebbe portando ogni mese (oppure ogni anno) il Tfr in busta paga. Per quantificare il rincaro, i calcoli nella tabella sopra mostrano la quota di Tfr che finisce all’Erario in caso di diversi redditi, ipotizzando una vita lavorativa di 40 anni.
La forbice fra l’attuale tassazione separata e l’aliquota che si applicherebbe al Tfr trasformato in stipendio, naturalmente, cresce insieme ai redditi, perché alla quota aggiuntiva di reddito che irrobustirebbe la busta paga in caso di addio al Tfr va applicata l’aliquota marginale. La distanza è forte anche se non si considera la parte legata alla rivalutazione, che nel caso di una trasformazione del Tfr in stipendio dovrebbe essere abbandonata: nel caso di un reddito da 100mila euro, per esempio, l’aliquota finale sull’accantonamento viaggia pochi decimali sopra il 35%, contro il 43% dell’Irpef marginale. Difficile poi, in particolare dopo l’intervento sulle rendite finanziarie, ipotizzare con il Tfr “liberato” forme di investimento che offrano lo stesso trattamento, in termini fiscali e di rendimento, a cui sono sottoposte le quote accantonate oggi.
Il grafico. Quanto pesa il Fisco con il Tfr in busta paga
Ilsole24ore.com – 18 agosto 2011