La manovra di aggiustamento dei conti pubblici torna a far rotta sulle pensioni. Si parla di abolizione degli assegni di anzianità o, in alternativa, di congelarli per quattro anni. La riforma, forse, travolgerà anche la barriera dei quarant’anni di contributi. Si sente forte il sapore del tradimento verso una norma del genere. Fino all’anno scorso la soglia dei quarant’anni era stata considerata una sorta di limite blindato contro cui si sarebbero infrante tutte le forbici. Amato nel lontano 1992, poi Dini nel ’95, più di recente Maroni avevano assicurato che quel tetto non sarebbe mai stato toccato.
Lavorare quarant’anni veniva considerato una sorta di medaglia al merito che andava rispettata. Un tempo le imprese conferivano riconoscimenti e pergamene ai lavoratori con trent’anni di servizio. Su qualche giornale di provincia venivano anche acquistati spazi pubblicitari per celebrare l’avvenimento. Foto e strette di mano con la dirigenza immortalavano il riconoscimento. L’esperienza come patrimonio di conoscenze e di capacità da conservare e da trasmettere. Oggi, invece, sembra che la vecchiaia sia diventata una malattia. Gli ultimi dati di Mediobanca pubblicati ieri mattina su tutti i giornali dicono che le principali aziende italiane hanno registrato l’anno scorso risultati record e, se non ci saranno novità, alla fine del 2011 torneranno su livelli di utili del 2007, ultimo esercizio prima della grande crisi. Traguardi così esaltanti sono stati ottenuti, innanzitutto, tagliando l’occupazione. Vuol dire che da una parte rallentando le assunzioni e, dall’altra, agevolando gli esodi. Soprattutto per i dipendenti più vicini all’età della pensione. E allora francamente non si capisce: da una parte le imprese puntano a liberarsi dei lavoratori più anziani perché costano troppo. Dall’altro lo Stato che vuole alzare l’età pensionabile.
Ma allora noi cinquantenni che cosa dobbiamo fare? Dal mondo della produzione veniamo considerati risorse da rottamare perché irrecuperabili alla nuove tecnologie e troppo costosi. La previdenza pubblica però ci impone di restare al lavoro perché non ha i soldi per pagare i nostri assegni. Insomma costiamo troppo per tutti. Che brutta fine stiamo facendo noi figli del baby-boom nati nella seconda metà degli anni ’50 o giù di lì. I governi ci considerano un problema, le imprese un problema, i giovani la causa del loro precariato. Se non trovano lavoro o sono costretti a guadagnare mille euro al mese la colpa è nostra perché siamo dei privilegiati (almeno fino a quando abbiamo un lavoro e uno stipendio). Proprio per questa ragione e proprio per evitare altre sorprese sul piano previdenziale ho fatto un po’ di conti e ho deciso di riscattare gli anni dell’Università. Mettendo tutto insieme arrivo a quarant’anni di contributi tra la fine dell’anno prossimo e la metà del 2013. Insomma pensavo di averla sfangata. La prima amara sorpresa l’ho ricevuta l’anno scorso con la manovra estiva di Tremonti. Anche maturando i requisiti incasserò l’assegno solo dopo un anno e anche di più. E siamo già a quarantuno (senza considerare la dispersione dei contributi del periodo). Ora vengo a sapere che forse, dovrò restare al mio posto altri quattro anni se passa l’ipotesi del congelamento. Addirittura altri sei se dovessi arrivare alla soglia obbligatoria dei 65 anni. Alla fine sarà quasi mezzo secolo di lavoro. Altro che privilegiato. Spero di avere un po’ di salute per godermela un po’. E soprattutto quanto ho fatto finora, comprese le decine di migliaia di euro che ho speso per il riscatto dell’Università, a che cosa è servito? Non lo so. Sembra proprio che tutti ce l’abbiano con me.
Nino Sunseri – Libero – 11 agosto 2011