Il problema dei fannulloni nella pubblica amministrazione si risolve «semplicemente licenziandoli», sostiene da tempo il ministro Renato Brunetta. Ma anche nelle fabbriche, nelle aziende e insomma in tutti i comparti del settore privato i dipendenti che hanno uno «scarso rendimento» possono essere licenziati, soprattutto se al loro fianco hanno colleghi molto più bravi di loro. A ricordare una lunga serie di norme e sentenze che legittimano il licenziamento del dipendente “fannullone” è la Fondazione studi dei consulenti del lavoro nel parere 16 dello scorso primo agosto. «Lo scarso rendimento – sostiene la Fondazione in risposta a un quesito – è una violazione del dovere di diligenza del lavoratore che può configurare un’ipotesi di giustificato motivo soggettivo di licenziamento».
Due, secondo la giurisprudenza citata nel parere, le condizioni perché ciò si verifichi: il datore di lavoro deve provare non solo «il «mancato raggiungimento del risultato atteso», ma anche che la causa di questo insuccesso «deriva da negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nella sua normale prestazione». Di per sé – spiegano i consulenti del lavoro – il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale, o d’uso, non basta dunque all’impresa per ottenere il licenziamento del dipendente. L’inadeguatezza della prestazione resa potrebbe infatti essere dovuta anche all’organizzazione del lavoro, o comunque a fattori esterni. Insomma, per licenziare il fannullone l’impresa non può limitarsi «a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso (ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità), ma è onerato della dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, valutando gli aspetti concreti del fatto addebitato nonché il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello usato dal lavoratore».
Tracciata così, quindi, la strada del licenziamento individuale sembra tutta in salita. Tuttavia, a renderla più percorribile ci pensa ancora la giurisprudenza, che chiama in causa il confronto tra colleghi: «Il datore di lavoro – si legge nel parere 16 – può dimostrare l’inadempimento del dipendente anche mediante la comparazione tra i risultati produttivi dello stesso dipendente con il rendimento medio dei suoi colleghi. In tale prospettiva, affinché si configuri l’inadempimento per scarso rendimento, è necessario che tra i risultati del lavoratore e quelli degli altri vi sia una “enorme sproporzione”, cioè uno scarto molto significativo, che dimostri in modo oggettivo e inequivocabile la mancanza di diligenza».
La più recente Cassazione ha più volte precisato che per scarso rendimento si deve intendere la «evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – e a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione fra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferiti a una media di attività tra i vari dipendenti e indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione». Quindi la negligenza, spiega la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, «può essere provata anche attraverso presunzioni poiché, come detto, dalla (enorme) sproporzione dei risultati si presume l’inadempimento del lavoratore – e tale prova rientra fra le valutazioni di fatto che sono di competenza del giudice di merito, con giudizio incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato».
Ilsole24ore.com – 8 agosto 2011