Gli esperti si sono già messi a fare i conti, arrivando a una conclusione univoca: anche a essere molto cattivi, dalla spesa per l’assistenza sociale sarà impossibile tirar fuori 17 miliardi di euro, quanti ne servono per anticipare il pareggio di bilancio, entro la fine del 2013. E così si fa strada l’ipotesi di nuovi interventi sulle pensioni per evitare di pescare nel serbatoio delle agevolazioni fiscali, destinato a finanziare la riduzione delle aliquote Irpef, e in qualche modo a bilanciare i tagli. Ufficialmente l’argomento non è all’ordine del giorno, e il governo non ha neanche accennato alle parti sociali nell’incontro di due giorni fa.
Prima di tutto, con loro, c’è da affrontare il problema delle norme per estendere “erga omnes” la contrattazione aziendale. Il governo le vuole, la Confindustria le sollecita, ma i sindacati hanno ancora qualche perplessità. Mettere subito sul piatto anche la questione previdenziale sarebbe forse troppo. Resta il fatto che tra i tecnici dell’esecutivo e gli esperti del settore, la discussione sulla previdenza è già avanzata.
Il perché è presto detto: dalla riforma dell’assistenza, in soli due anni, si possono tirare fuori al massimo 4 miliardi di euro. È vero che a regime, cioè in un tempo più lungo, potranno essere molti di più. Ma i soldi per arrivare al pareggio di bilancio un anno prima del previsto, nel 2013, servono subito.
E dunque si ragiona su almeno tre fronti: l’età di pensione delle donne nel settore privato, le pensioni di reversibilità, e soprattutto quelle di anzianità. Per le donne si tratterebbe di accorciare drasticamente il periodo di avvicinamento ai 65 anni degli uomini, che si concluderà solo nel 2030. Mentre sui 5 milioni di pensioni di reversibilità, che l’Italia concede con generosità senza pari in Europa (38 miliardi l’anno), l’intervento sarebbe più graduale, dovendo far salvi i diritti acquisiti.
Il vero problema, come il grosso della spesa e dei possibili risparmi, è nelle pensioni di anzianità. Nel 2010 l’età media effettiva di pensionamento degli uomini è stata di appena 58,5 anni. Nel 2011 salirà a 58,8. Da qui al 2014, a tirar su l’asticella, contribuirà l’aumento progressivo delle “quote”, date dalla somma di contributi ed età anagrafica. Tra tre anni, tuttavia, si potrà ancora andare in pensione a 61 anni (a 62 per gli autonomi). E di questo passo, per arrivare a un pensionamento effettivo a 65 anni ci vorranno almeno trent’anni.
Perpetuando ancora a lungo, per giunta, le ingiustizie del “doppio binario”. Chi va in pensione anticipata oggi, ci va con il vecchio sistema “retributivo”, cioè con un assegno pari alla media degli ultimi dieci anni di stipendio. Chi arriverà alla pensione di anzianità fra quindici anni, invece, ci andrà parecchi mesi dopo, e con il sistema “contributivo”, ovvero con una pensione di gran lunga più bassa. C’è dunque anche una ragione di equità, oltreché l’emergenza del momento, che potrebbe spingere il governo a compiere il passo decisivo e finale sul sistema previdenziale.
Gli esperti valutano due strade possibili. La più drastica è l’abolizione tout-court delle pensioni di anzianità, lasciando nell’ambito della legge sui lavori usuranti le uniche vie di fuga prima dei 65 anni (che poi saliranno con l’agganciamento alle speranze di vita). C’è chi suggerisce, invece, la strada dei disincentivi: un “x” per cento in meno di pensione per ogni anno che manca al limite della vecchiaia, oppure il ricalcolo dell’assegno solo con il meccanismo contributivo.
corriere.it – 7 agosto 2011