di Emanuela Zerbinatti (gattivity-blogosfera). Parliamo un po’ di pubblicità. Ve li ricordate gli spot dell’amaro Montenegro che tormentavano le nostre serate davanti alla tv negli anni ’80? Si può dire senza timore di sbagliare che sono stati dei veri antesignani delle campagne pubblicitarie seriali di oggi. A far da filo conduttore tra gli episodi che caratterizzarono la prima serie c’erano gli animali da salvare e lui, il mitico veterinario la cui giornata “non è mai finita”, perché “quello del veterinario è un mestiere duro”. Ma d’altra parte lo aveva “scelto lui” e quindi poteva starci la chiamata a tutte le ore del giorno e della notte, la corsa rocambolesca in sidecar nella natura incontaminata e selvaggia, l’intervento e, infine, la guarigione istantanea e miracolosa del malcapitato di turno.
Nel corso degli anni sono passati sotto le sue mani taumaturgiche il miglior aiutante del guardiacaccia (cane), il purosangue (cavallo), uno dei pochi falchi rimasti, lo stambecco e perfino il toro.
Ringraziamenti e abbracci di rito e l’immancabile bicchierino di amaro offerto dagli abitanti del luogo che con quei pazienti speciali vivono e lavorano. “Questa gente, questi sapori…, queste erano le sue soddisfazioni”.
Un veterinario d’altri tempi in cui non si riconoscevano nemmeno i veterinari (veri) di allora, i quali chiesero e ottennero l’interruzione della serie per danno all’immagine dell’intera categoria.
Ad andargli di traverso era la visione ritenuta troppo favolistica della professione che rischiava di far passare al pubblico l’idea di un medico in grado di risolvere sempre tutto e di riconsegnare in pochi istanti gli animali sani e salvi ai padroni o al loro ambiente. La medicina veterinaria aveva già fatto passi da gigante ed era ben avviata verso un futuro sempre più scientifico e tecnologico, ma per i miracoli non è attrezzata nemmeno oggi.
Questo medico di campagna che viaggiava in sidecar e faceva tutti felici e contenti (qui il video di uno dei primi episodi della serie), senza strumenti e nelle condizioni operative peggiori possibili, non li rappresentava.
Nella vita professionale vera – lamentavano – non funziona così: i pazienti non sempre guariscono e, anche quando succede, i loro padroni non sempre ringraziano né offrono il bicchierino che “scalda i cuori e rinsalda le amicizie”. Non finisce, insomma, quasi mai “a tarallucci e vino”. Ed ecco qui il motivo principale del risentimento dei medici degli animali: l’idea di un veterinario che a ogni paziente salvato si fa un bicchierino di amaro, proprio non andava giù. Per quanto all’epoca fosse consentito pubblicizzare alcolici, gli effetti deleteri degli spot nell’incentivare al consumo smodato era già motivo di discussione e nessuna categoria professionale ci teneva ad essere additata come quella degli ubriaconi che per di più istigano gli altri a fare altrettanto. A sostenere il sospetto dei veterinari che la serie di spot dell’amaro Montenegro danneggiasse la professione facendoli apparire in questo modo, c’erano le numerose parodie dei vari episodi della serie, da cui il veterinario in sidecar usciva niente affatto bene.
Esagerati? Nel dubbio, e per evitare costose azioni legali da parte dei professionisti, l’agenzia di comunicazione diretta da Emanuela Pirella (lo stesso della Chiquita, banana 10 e lode) che aveva realizzato gli spot e l’azienda che glieli aveva commissionati cambiarono soggetto. La situazione, in vero, era sempre la stessa e la serialità era ancora più evidente (non episodi isolati della storia di uno stesso personaggio, ma un vero racconto in più parti), ma non altrettanto la professione del protagonista. Nella nuova serie c’era un vaso da salvare ma a che categoria appartenesse l’eroe di turno che a fine missione si beccava il bicchierino-ricompensa non era così chiara. Niente più “questo è un mestiere duro, ma l’ho scelto io”.
È curioso notare come questa frase non sia riuscita a contrastare il resto degli aspetti dell’immagine del veterinario che uscivano dagli spot, nonostante fosse ripetuta come un leit motiv sin dal primo episodio della serie, e che poi hanno portato alla protesta delle associazioni di categoria. Ma penso dipenda dalla nostra impostazione mentale che ci porta a vedere quello che ci piace di più o che ci fa soffrire meno a discapito di quello che in ogni situazione ci può turbare. Ripeterci che quello del veterinario è un mestiere duro non riusciva a convincerci che fosse davvero così se poi vedevamo con quanta facilità questo veterinario-eroe realizzava miracoli e faceva tutti felici e contenti.
Non ho dati ufficiali al riguardo, ma è probabile che tra i ragazzi cresciuti negli anni ’80, qualcuno abbia coltivato il sogno di diventare come il veterinario degli spot: eroe che fa miracoli in mezzo alla natura, amato e coccolato da tutti. Al contrario – e qui veniamo al motivo per cui vi ho ricordato la serie di spot dell’amaro Montenegro – esistono molti dati che dimostrano quanto questa visione idilliaca della professione sia lontana dalla realtà, soprattutto oggi.
Veterinari, categoria più a rischio depressione sin dall’Università
31 luglio 2011