Per dirla con Peter Cordingley dell’Organizzazione mondiale della sanità, un’istituzione che non fa dell’allarmismo la sua cifra stilistica, «in Giappone la contaminazione radioattiva del cibo è grave». E infatti si sono raggiunti i 15.020 bequerel/kilo di iodio 131 negli spinaci e in altre verdure a foglia larga (limite massimo ammesso, 2 mila), 1.510 bequerell/litro di iodio 131 nel latte (limite di 300) e 890 bequerel al chilo di cesio nella carne (limite massimo, 500). Questi prodotti arriveranno nei nostri mercati? Magari sfruttando triangolazioni, che, passando da altri paesi, possa farli sembrare sicuri? Sulle truffe nessuno può garantire. Di cibo dal Sol Levante ne importiamo poco.
E al ministero della Salute hanno messo in atto un sistema di monitoraggio dell’import alimentare dal Giappone (pesce, crostacei, funghi, alghe, soia, the verde).
E la sorpresa è che da metà marzo il flusso si è quasi esaurito spontameamente: dal 21 marzo al 7 aprile non è giunta in Italia nessuna partita di prodotti animali (pesce compreso) dal Giappone, mentre tra il 21 marzo e il 2 aprile sono arrivate solo 9 derrate alimentari non animali: praticamente zero. Nessuno vuole i cibi di Tokyo. E un calo si è verificato anche nei ristoranti giapponesi, anche se il pesce che vi si consuma non proviene dalla nazione devastata dal sisma-tusnami. Quanto ai prodotti ittici etichettati ‘Oceano pacifico’ che si trovano nei nostri negozi, va detto che non vengono da acque giapponesi.
C’È PERÒ ANCHE un altro problema: le radiazioni partite da Fukushima, in quantità molto limitate, sono state rilevate anche in Europa. A sollevare l’allarme per bambini, donne incinte e in allattamento è un centro di ricerca indipendente francese, il Criirad. Ma i nostri ricercatori negano un rischio reale per la salute. «E’ vero che ci sono categorie più sensibili – osserva Elena Fantuzzi, direttore dell’Istituto di radioprotezione dell’Enea – ma i livelli di dose attuali in Europa sono assolutamente irrilevanti per tutti, incluse anche le categorie più sensibili». I francesi fanno però valere il principio di precauzione. «I pericoli – osservano al Criirad – sono certamente molto bassi, ma tenendo conto della possibile durata di contaminazione, l’esistenza di particolari abitudini alimentari e la vulnerabilità di alcuni gruppi di popolazioni, sembra utile evitare che gli alimenti sensibili costituiscano la base della dieta nelle prossime settimane. Questa misura riguarda in particolare i bambini, le donne incinte e le madri che allattano al seno». Al Criirad danno anche alcune indicazioni sugli alimenti da evitare o assumere con misura: «Insalate, bietole, spinaci, cavolo e simili se non coltivati in serra; latte e formaggi freschi (specie di capra e di pecora), e carne, fatta eccezione per quella proveniente gli allevamenti in stalla».
ECCESSIVO? «I risultati delle prime misure effettuate sul latte a partire dal 30 marzo – osserva Giancarlo Torri responsabile servizio misure radiometriche all’Ispra – hanno evidenziato un valore molto piccolo di concentrazione di Iodio 131, variabile tra 0,28 e 5,24 Bq/l. Si consideri che il livello massimo ammissibile di radioattività per lo Iodio 131 nel latte è pari a 150 Bq/l per gli alimenti per lattanti». Il valori più alti per il latte sono stati rilevati dall’Arpa Umbria il 5 aprile e dall’Arpa Emilia Romagna il primo aprile. Ma siamo appunto attorno a 5-7 bequerel per litro. la radioattività c’è, insomma, ma è poca. Per quanto riguarda i vegetali a foglia larga, anche qui è stata riscontrata radioattività da Iodio 131, con i valori più alti in Val d’Aosta (7,97 bequerel/kilo) e Friuli (5.8 bequerel/kg), ma il valore soglia è molto più alto che per il latte. «Dovremmo porci il problema – chiosa la dottoressa Fantuzzi – solo se e quando ci avvicinassimo a livelli attorno ai 150 bequerel litro per il latte». E per fortuna ne siamo lontanissimi.
QN – La Nazione – 13/04/2011