Il Nobel per la Medicina 2023 è una storia di perseveranza personale iniziata tre decenni fa, con una scienziata poco conosciuta e una carriera segnata da numerose battute d’arresto. Ma la determinazione della biochimica ungherese Katalin Karikó dell’Università della Pennsylvania (attualmente anche vicepresidente senior dell’azienda tedesca BioNTech) le ha dato ragione e ora è la tredicesima donna a vincere il prestigioso Premio in condivisione con il suo collaboratore di lunga data, l’immunologo Drew Weissman.
Prima che la loro scoperta portasse all’approvazione dei due vaccini Covid-19 basati sull’mRna alla fine del 2020 – contribuendo a salvare milioni di vite e prevenendo le forme gravi di malattia – era un ristagno scientifico. E per la scienziata ungherese la strada non è stata facile, anzi.
Katalin ha passato gli anni ’90 a raccogliere un rifiuto dietro l’altro. Il suo lavoro, nel tentativo di sfruttare il potere dell’mRna per combattere le malattie, era troppo inverosimile per le sovvenzioni governative, i finanziamenti aziendali e persino il sostegno dei suoi stessi colleghi. Tutto aveva un senso sulla carta, ma tradurlo in applicazione sembrava impossibile. Il postulato è semplice: il nostro corpo si affida a milioni di minuscole proteine per mantenersi in vita e in salute e utilizza l’mRna per dire alle cellule quali proteine produrre. Da qui, l’idea di progettare questo messaggero per creare “proteine terapeutiche”: anticorpi per vaccinare contro le infezioni, enzimi per invertire una malattia rara o agenti di crescita per riparare il tessuto cardiaco danneggiato. Un compito però decisamente arduo. Per decenni, infatti, i vaccini a mRna sono stati considerati irrealizzabili perché l’iniezione innescava una reazione immunitaria che scomponeva immediatamente l’mRna prima che potesse raggiungere le cellule bersaglio. Inoltre, questo mRna prodotto in vitro dava origine a reazioni infiammatorie.
Nel 1995, dopo sei anni di docenza all’Università della Pennsylvania, Karikó fu addirittura retrocessa. Era sulla strada per diventare professore ordinario, ma senza finanziamenti per sostenere il suo lavoro sull’mRna, i suoi capi non vedevano motivi per andare avanti. Così, era tornata ai gradini più bassi dell’accademia scientifica e il lavoro a cui aveva dedicato anni le stava scivolando tra le dita.
Dopo un decennio di tentativi ed errori, Karikó e Drew Weissman, finalmente scoprono la soluzione per superare il tallone d’Achille dell’mRna creandone uno ibrido che riesce a intrufolarsi nelle cellule senza allertare le difese del corpo. In pratica, hanno dimostrato che lo scambio di un tipo di molecola nell’mRna, chiamata uridina, con una simile chiamata pseudouridina, riusciva a bypassare le difese innate delle cellule.
Anche se all’epoca la ricerca non ottenne grande seguito, attirò l’attenzione degli scienziati che avrebbero poi fondato Moderna e BioNTech. E ora, quasi 20 anni dopo, sono state somministrate miliardi di dosi di vaccini a mRna.
Non solo. I due pionieri della ricerca sull’mRna – la tecnologia che ha aiutato il mondo a domare il virus dietro la pandemia di Covid-19 – hanno cominciato a scrivere il primo capitolo di una storia scientifica rivoluzionaria che darà ancora molti altri frutti. Lo stesso approccio, infatti, viene testato per altre malattie e condizioni e si sta esplorando la tecnologia come potenziale piattaforma terapeutica per sviluppare vaccini contro il cancro e immunizzazioni contro altre malattie infettive, dall’influenza al vaiolo fino all’Hiv.
Il comitato per il Nobel, dal Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia, ha definito il lavoro di Karikó e Weissman un ottimo esempio di competenze complementari, con Karikó concentrato sulle terapie basate sull’Rna e Weissman che apporta una profonda conoscenza delle risposte immunitarie ai vaccini. La coppia ha svolto la loro ricerca che ha cambiato il mondo presso l’Università della Pennsylvania, dove Weissman rimane professore di ricerca sui vaccini. Karikó, che in seguito è andata a lavorare alla BionTech, è ora professoressa all’Università di Szeged nella sua nativa Ungheria, e rimane professore a contratto presso la Perelman School of Medicine della Penn.
«Ogni ottobre mia madre mi diceva: ascolterò alla radio che forse hai vinto il premio Nobel. Rispondevo a mamma che non ho mai ricevuto nemmeno una borsa di studio. Allora lei replicava “ma il capo dice che lavori così duramente”, e io le spiegavo che tanti scienziati lavorano molto, molto duramente», ha raccontato Karikó in un video della Penn University statunitense che le ha reso omaggio per il riconoscimento ricevuto. E in effetti, anche se i risultati dei due vincitori sono stati pubblicati nel 2005, ben 15 anni prima della pandemia di Covid, il fatto che l’onoreficenza vanga data quasi tre anni dopo il lancio dei vaccini a mRna rompe quella che è diventata la tradizione dell’assegnazione del Nobile, che non rispecchia però le volontà del suo ideatore, Alfred Nobel. Nel suo testamento si stabiliva che i premi dovessero essere assegnati a coloro che, nell’anno precedente, avevano prodotto il massimo beneficio per l’umanità. Ma come riporta un’analisi condotta dalla rivista Nature: negli ultimi 60 anni l’attesa tra la scoperta e il riconoscimento del Premio Nobel è raddoppiata, con la metà dei vincitori che ormai deve pazientare per più di 20 anni. Anche questa è una rivoluzione.