Il programma di finanza pubblica approvato mercoledì dal Governo poggia su una tripla scommessa, che comincia ad assumere una forma più precisa nei numeri della tabella con gli indicatori di finanza pubblica diffusa ieri dal ministero dell’Economia: una crescita del prodotto nominale, quello che incorpora l’inflazione, al 4,1%, grazie a una dinamica dei prezzi che rallenta in modo molto graduale (come da previsioni Bce); la realizzazione effettiva dei 21-22 miliardi di privatizzazioni annunciato in conferenza stampa dal ministro dell’Economia Giorgetti (un punto di Pil sull’orizzonte pluriennale); una curva degli interessi che eviti scossoni e si mantenga fedele alle proiezioni elaborate in base alle ultime dinamiche.
Nel programma di finanza pubblica aggiornato, l’unione di questi tre fattori permette di far approvare al Parlamento lo scostamento da circa 21 miliardi in tre anni indicato dai numeri e percorrere la leggera discesa del debito pubblico in rapporto al Pil rimandando al 2025 il ritorno all’avanzo primario, che fin qui era previsto per l’anno prossimo. Se l’insieme delle tre variabili si mette a girare in modo diverso, e soprattutto se il costo medio del debito supera la crescita nominale, la prospettiva cambia. Sull’orizzonte più lontano, il 2026, si affaccia poi una prima stretta di bilancio che riporta il deficit sotto il 3%, al 2,9%, evitando lo sforamento anche in quell’anno scritto nel tendenziale.
La mossa farebbe salire in quell’anno l’avanzo primario nei dintorni dei 36,5 miliardi (1,7% del Pil) mentre la curva dei tassi scarica in pieno i propri effetti portando la spesa per interessi verso i 105 miliardi. L’altro parametro al centro dei negoziati con la Ue ai tempi delle vecchie regole fiscali, cioè il deficit strutturale al netto di una tantum e delle variabili del ciclo economico, viaggerebbe più in alto, riducendosi però ogni anno di oltre lo 0,5% chiesto dalle norme comunitarie non ancora archiviate prima dell’intesa sulla riforma. Riforma che secondo la Germania e i suoi alleati dovrebbe chiedere un ritmo minimo di riduzione del debito che nel programma italiano scende però di un decimale quest’anno, due il prossimo e tre il successivo.
La scommessa è obbligata, nell’ottica ribadita dal ministro dell’Economia, dall’esigenza di farsi largo nella strettoia fra il debito aggiuntivo in arrivo dal Superbonus e l’esigenza di «garantire la coesione sociale» continuando nel sostegno ai redditi medio-bassi, in un menù che ora al cuneo fiscale aggiunge l’avvio della riforma fiscale con l’accorpamento dei primi due scaglioni Irpef che applicherebbe ai redditi fino a 28mila euro l’aliquota minima del 23% ora riservata alle dichiarazioni fino a 15mila euro.
Queste spinte contrapposte fra l’ipoteca da oltre 20 miliardi l’anno ereditata dal Superbonus e la necessità di non rinunciare a un pacchetto di misure mentre l’economia rallenta riduce le dimensioni della manovra, che nelle intenzioni attuali del Governo dovrebbe attestarsi intorno ai 22-23 miliardi, e di conseguenza allarga la quota realizzata a deficit.
Con l’aggiornamento del Pil nominale che deriva dalle revisioni Istat e viene dettagliato nella tabella di ieri, i 7 decimali di Pil di extradeficit messi in programma per il prossimo anno arrivano a un soffio dai 15 miliardi, e sono destinati quindi a finanziare più della metà della legge di bilancio.
Il resto dovrebbe arrivare dai 2 miliardi di spending chiesti dal Mef, mentre il riordino delle spese fiscali è chiamato a trovare un altro miliardo e dalla gara del lotto sono attesi 400 milioni. Cifre che indicano come la strada delle coperture sia ancora da completare, anche perché la tassa sugli extraprofitti bancari, nella vecchia e nella nuova versione, è priva di una quantificazione ufficiale.