A fornire i dati della partenza flop è l’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, che ha appena pubblicato il nuovo monitoraggio sull’andamento delle nuove strutture territoriali finanziate con 7 miliardi del Pnrr. Delle 1.430 Case di comunità da realizzare entro il 2026 il governo ne ha già depennate 400 che non si riuscirà a ultimare nei tempi previsti dal Pnrr. Per queste si attingerà ai 10 miliardi ancora inutilizzati dal lontano 1988 del Fondo per l’edilizia sanitaria, che se sono rimasti in cassaforte per 25 anni un motivo ci sarà. Del migliaio di strutture che restano da avviare da qui a poco più di due anni ne sono state attivate oggi 187, ossia il 19% circa. Ad averle messe su sono per ora sei regioni: la Lombardia, che ne ha realizzate 92, l’Emilia Romagna 43, il Piemonte 38, la Toscana e il Molise 6 ciascuna e l’Umbria che di Case ne ha tirate su 2. Solo il 17% fanno apertura continuata per tutta la settimana mentre i medici di famiglia sono i grandi assenti nel 46% delle strutture, che rischiano così di trasformarsi in un bluff per gli assistiti. Tanto più se si pensa che in base al decreto che le ha istituite dovrebbero avere al loro interno team di professionisti composti non solo da pediatri e medici di famiglia, ma anche psicologi, logopedisti, dietisti, tecnici di riabilitazione e, al bisogno, anche medici specialisti ambulatoriali come cardiologi, diabetologi, ortopedici e quant’altro. In questa falsa partenza invece non solo mancano i medici di medicina generale e i pediatri, ma quando risultano presenti lo sono per poche ore: meno di 30 ore a settimana nella metà delle Case di comunità, che in via teorica dovrebbero invece essere sempre aperte, offrendo quindi assistenza per 168 ore nell’arco dei sette giorni. Come dire che nella metà delle strutture i nostri medici di famiglia latitano proprio e nella restante metà coprono un orario che nella maggioranza dei casi è pari più o meno al 20% dell’orario di apertura.
Ma scarseggiano anche gli specialisti che oggi come oggi fanno nella maggioranza dei casi 10 ore o poco più a settimana negli ambulatori delle Asl. Troppo poche per lavorare poi anche in team nelle nuove strutture.
Si dirà che siamo appena alle prime battute, che c’è tempo da qui al 2026 per rodare e mettere a regime la macchina della nuova sanità territoriale finanziata dal Pnrr. Ma i soldi di quest’ultimo servono per tirare su le mura e non possono essere utilizzati per pagare il personale sanitario che deve lavorarci. E nella prossima manovra non sembrano esserci soldi né per aumentare le ore di lavoro degli specialisti ambulatoriali e nemmeno per farci lavorare i medici di famiglia più giovani in rapporto di dipendenza come vorrebbe il Ministro della salute, Orazio Schillaci. I primi nel 42% dei casi lavorano negli ambulatori delle ASL per meno di 10 ore a settimana. Il Ministro vuole portare l’orario a 38 ore ma siccome la retribuzione dei medici specialisti va col tassametro le ore in più vanno pagate. E non sono pochi soldi. Così come costa portare alla dipendenza i medici di famiglia che oggi lavorano come liberi professionisti legati da una convenzione con le Asl. Fatto che li rende parecchio autonomi. Non a caso da decenni l’orario medio settimanale dei loro studi resta ancorato a 15 ore. Quelle che a volte fanno i loro colleghi ospedalieri, ma in un giorno. Anche se poi a queste ore ne va aggiunta una manciata per le rare visite domiciliari e per i pazienti presenti in sala d’attesa che vanno visitati anche a orario di apertura dello studio oramai finito. Ma sempre di un orario a scartamento ridotto si tratta e a questa anomalia Schillaci vorrebbe mettere fine al più presto, pur sapendo che il potentissimo sindacato di categoria, la Fimmg, è pronto far muro per proteggere una libertà di decidere tempi e modi di lavoro che pochi in sanità hanno. I soldi invece il ministro spera di ricavarli dalle misure di razionalizzazione che vorrebbe inserire in manovra, come il taglio del 20% degli accertamenti inutili o il riaccorpamento di reparti e sale operatorie sottoutilizzate per generare risparmi da reinvestire nelle nuove strutture territoriali. Tutte cose tentante invano già in passato, e che se destinate a nuovo fallimento rischiano di trasformare Case e Ospedali di comunità in scatole vuote.
Anche la costruzione di questi ultimi, che dovrebbero ospitare i pazienti in dimissione ma che non possono ancora essere spediti a casa, viaggia a rilento. Finora ne funzionano solo 76, il 17% dei 434 che dovrebbero essere attivati entro il 2026. Di questi il grosso si trova tra l’altro in Veneto, che vanta 38 ospedali di comunità e in Lombardia, dove se ne contano 17. Altrove le briciole oppure il nulla.
La Stampa